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Otto anni

Ultimo Aggiornamento: 12/09/2008 14:29
12/09/2008 14:29
 
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Perchè si abbandona il proprio compagno/a dopo un evento traumatico?
OTTO ANNI

Mi siedo per aiutare Roberto a finire i compiti, penso però che abbia finito perché lo vedo disegnare.
Mio figlio, la gioia del mio cuore, ha otto anni; sta colorando uno strano disegno che rappresenta una sedia con le ruote e gli chiedo:
«Cos’è questo?»
«E’ una sedia con le ruote!» Mi risponde soddisfatto.
«Perché ha i raggi colorati come l’arcobaleno?» Gli chiedo incuriosita per quella vivacità di colori.
Roberto mi fa un enorme sorriso e mi dice: «Perché così è allegra e più divertente»
S’interrompe, mi guarda con quei suoi occhioni scuri e mi dice ancora: «Mamma, oggi a scuola abbiamo parlato di disabilità. Tu la conosci?»
Roberto me lo chiede come se si tratti di una persona da conoscere, si vede che non è riuscito bene ad afferrare la questione a scuola.
Poi gli prendo la mano e anziché guardare la tv nell’attesa di andare a letto, lo invito a sederci sul dondolo, fuori in terrazzo.
Il primo venticello autunnale si fa sentire, è pungente ed entra nell’intreccio del golfino. Gli chiudo la maglia felpata sennò Roberto si raffredda. Qualche foglia gialla è caduta giù dall’albero, si vede che l’estate è già un ricordo lontano. E’ già buio fuori e nel cielo brillano delle stelle.
La disabilità è entrata nella nostra vita, ma noi gli abbiamo chiuso la porta in faccia maleducatamente. Spaventati da quello che potesse comportare, dalle limitazioni che potesse dare. Dall’accumulo di problemi e responsabilità che ne sarebbero derivati. Ma Roberto tutte queste cose non le sa e non ha colpa di nulla.
«Ti racconto una storia Roberto» Gli sono sempre piaciute le storie, s’incanta ad ascoltare.
«Sì mamma racconta, dai!»
«C’erano, parecchi anni fa, tre ragazze e tre ragazzi. Ogni una delle ragazze era fidanzata con un ragazzo del gruppo. Anche se molto giovani si volano bene e facevano come fanno i grandi, si amavano. Due di loro si chiamavano Federico e Lisa».
«Lisa come te mamma!» Al sentire il mio nome Roberto riaccende l’attenzione, ma si capisce che ha già sonno.
«Si, esatto. Lisa come me.
Fede e Lisa si erano visti la sera del sette marzo. Fede aveva regalato a Lisa una macchinina gialla in scala 1/18 della Burrago.»
«Come quella della mensola» risponde con la voce già impastata di sonno.
«A Fede non piaceva fare i soliti regalini come profumi e corredi per make-up. Desiderava che i suoi regali fossero unici e significativi. Lisa e Fede avevano finito la loro serata amandosi e promettendosi eterno amore, come di solito fanno i ragazzi. Il giorno dopo non si sarebbero visti, perché sarebbero andati per conto proprio a festeggiare l’8 marzo, la festa delle donne.
Infatti, le ragazze avevano prenotato in una pizzeria in Centro; mentre i ragazzi si erano dati appuntamento in un Pub fuori città, non lontano da Milano.

La gioia e la spensieratezza d’essere così amiche e di condividere tante belle emozioni, aveva fatto esagerare le ragazze con la birra. Poco male per loro, avrebbero preso la metro.
I ragazzi facevano lo stesso, diluivano la felicità e il divertimento con l’alcool, ma uno di loro avrebbe dovuto guidare per ritornare in città.
Quello stato d’euforia e felicità condita con un pizzico di follia erano comuni a quei ragazzi. Per via della loro giovane età, a causa del loro innamoramento che li teneva tutti in uno stato di grazia.
Ma l’euforia diluita con l’alcool e l’essere un po’ incoscienti, alla fine avrebbe fatto danni. Danni gravi.
Il sottopasso della Metro era poco distante dalla pizzeria e le tra ragazze si apprestavano a rientrare data l’ora tarda. A Lisa squillò il cellulare. Era la mamma di Fede che con la voce rotta dal pianto, la pregava di precipitarsi all’ospedale Maggiore perché Fede e gli altri avevano avuto un incidente.»

Roberto ha già gli occhi chiusi. Sarà meglio che lo porto a letto, ci manca solo che si irrita la gola con questa frescura. Quanto pesa! E abbastanza pienotto per i suoi otto anni. Pesa già 30 chili. Mi chiedo se non dovrebbe già cominciare a fare qualche sport.
Appena sotto il piumino apre gli occhi e mi dice:
«Dai mamma racconta ancora» Poi si gira dall’altra parte, unisce le mani e sorride. Ha ripreso a dormire.

«Lisa era arrivata in ospedale con il cuore in gola e gli occhi gonfi. Aveva abbracciato i genitori di Fede che le avevano riferito che il figlio era stato trasferito in terapia intensiva. Riccardo invece non ce l’aveva fatta, era stato sbalzato fuori dell’abitacolo ed era morto. Rino era, invece, in ortopedia con piccole fratture.
Era stato un incidente terrificante, l’alta velocità aveva fatto sbandare la loro macchina in una curva e non erano rimasti che rottami.
Quella settimana era stata orrenda. I funerali di Riccardo con la sua ragazza, la nostra amica Michela, impazzita per il dolore. Fede era sempre in terapia intensiva e le sue condizioni erano stazionarie.
Lisa andava tutti i giorni in ospedale e stava delle ore dietro quella porta color ghiaccio, insieme ai genitori. Fede era sempre incosciente perchè i medici lo tenevano sedato. Dovevano operarlo alla schiena e così fu trasferito al CTO. Dopo l’intervento fu comunicata ai genitori una diagnosi orribile: frattura vertebrale D6-L1 con parziale lesione midollare.
Fede non avrebbe più camminato.
Lisa era rimasta tanto tempo a fianco dei suoi genitori dietro quella porta della terapia intensiva e poi ancora dietro la porta della sala operatoria per due volte.
Dopo due settimane, non aveva più retto e aveva deciso di non andare più in ospedale. In tutti quei giorni non era mai riuscita a parlare con Fede. Un senso di stordimento e di disorientamento la attanagliava. Alle volte si sentiva in preda al panico e poi si sentiva strana, stanca, irrequieta».

Roberto respira con il naso chiuso mentre dorme, forse ha un principio d’influenza. I primi venti d’autunno hanno portato già i virus intestinali nelle scuole. Roberto ogni anno è il primo a contrarli. Domani sicuramente lo porterò dal pediatra. Adesso mi allungo un po’ vicino a lui così lo controllo durante la notte.
I ricordi lontani tremila giorni riaffiorano prepotentemente nella mente, lottano con i rimorsi e con i rimpianti.
Fa freddo nella cameretta del bambino, ho la schiena irrigidita, ma non ho voglia di alzarmi a prendere un plaid.

«Perché non vai a trovarlo Lisa?» Sente ancora nelle orecchie il ronzio delle voci delle sue amiche.
Le ripetono quelle parole all’infinito.
«I genitori ci sono rimasti male che non ti sei fatta più vedere. Fede dice invece che fai bene. Hai ventidue anni e devi goderti la vita, tu che puoi».
La vita non me l’avevo goduta in quei mesi, perché a due mesi esatti dall’incidente non avevo avuto più ciclo. Avevo fatto il test di gravidanza ed era positivo.
Con il cuore carico d’angoscia avevo parlato con i miei genitori che erano rimasti a dir poco sconcertati, ma si erano dimostrati, alla fine, comprensivi.
«Cosa hai intenzione di fare Lisa?» Le parole di mio padre pesavano come macigni. Aspettare un bambino dall’uomo che si ama ed aver paura di quella nuova situazione. Desiderare a tutti i costi quel frutto dell’amore ed essere pietrificati dagli eventi. Dire a Fede che sarebbe diventato padre in quel frangente? Costringerlo a pensare anche a questo, con tutto quello che gli stava succedendo?
No, sarebbe stato troppo per lui, in quella drammatica situazione.
Mio padre mi aveva consigliato più volte di ritornare su quella decisione, che non sembrava per niente sensata, ma ero stata irremovibile
Mi sarei trasferita da una zia, sorella nubile di mia madre. Con i miei avevamo spiegato alla zia la situazione e lei aveva accettato di prendersi cura di me per tutta la durata della gravidanza. Poi sempre con il suo aiuto avrei cercato un lavoro per non far mancare nulla al bambino.
Quando il bambino era venuto al mondo, Fede si era trasferito in Emilia Romagna, in un centro di riabilitazione, con i suoi genitori.

I primi anni il bambino e il lavoro mi assorbivano tutte le energie. La sera frequentavo dei corsi serali per mettermi al pari con gli studi interrotti e non cercai più notizie di Fede.
La tristezza, il rimpianto e un’infinità di rimorsi mi hanno sempre accompagnato ovunque io andavo e qualsiasi cosa io facessi.
Me lo sono domandata mille volte perché ho privato un padre di un figlio e un figlio del padre. Le risposte che ho sempre trovato somigliavano sempre a degli alibi per scagionare la coscienza di una scelta sicuramente sbagliata.

Roberto si agita nel sonno, è caldo e sembra febbricitante. Di sicuro domani lo terrò a casa. Forse è meglio che passi la notte qui vicina a lui perché con la febbre può vomitare, come faceva, quando era più piccolo. Il termometro digitale segna trentotto e otto linee, sarà meglio che metta una supposta d’antipiretico.
Le ore della notte passano lentamente. Le lancette sembrano essere ferme, ma i pensieri galoppano.
Chissà come sarebbe stata la nostra vita se avessi deciso diversamente... Continuo ad illudermi di aver fatto la scelta giusta, ma sempre più spesso le certezze vacillano.

E’ giorno adesso. Il chiarore della luce s’insinua tra le fessure delle tapparelle. Roberto apre gli occhi, sono ancora lucidi per la febbre, mi guarda e mi dice:
«Lo andiamo a trovare Fede?»
Un brivido gelato mi corre lungo la schiena e la fronte mi si sta impregnando di sudore freddo. Perché il destino deve essere così bastardo? E l’unica cosa che mi viene in mente è che forse questo è il richiamo del sangue, della carne.

«Ti vado a prendere un bicchiere d’acqua. Torno subito»
Corro in cucina e non riesco a trattenere le lacrime. Poi bevo avidamente perchè ho la gola arsa e le labbra secche. Cerco di smorzare l’enorme tensione accumulata. Devo chiamare l'ufficio per dire che oggi non andrò.
Quando torno da Roberto lo trovo addormentato. Forse è tempo che mi decida a rintracciare Fede.
Ritrovo la vecchia agenda dove ci sono ancora tutti i numeri di telefono. C’è il numero di cellulare del povero Riccardo e il numero di casa di Fede. Poi trovo anche il numero di Rino, mi faccio forza e lo chiamo.
«Rino Gaspanti? Sono Lisa. Ti ricordi di me?»
«Lisa! Oh Cielo, ma che fine hai fatto? Sei sparita!»
«Tu come stai? Che mi dici di te?»
«Mah, io lavoro in una ditta di trasporti. Ho un altro giro di amicizie. La nostra mezza dozzina si è finita dopo quel terribile incidente.»
«E Fede?» gli chiedo a bruciapelo, ma Rino mi risponde come se lo aspettasse
«Fede. Lo andavo a trovare spesso perché eravamo finiti al CTO. Chiedeva di te i primi giorni.
Poi quando si rese conto della gravità del suo stato, diceva che avevi fatto bene a rompere con lui.»
«Come sta adesso? Dove vive? Hai notizie di lui?» cerco di mantenere una certa freddezza facendogli quelle domande, ma il cuore mi pulsa intensamente.
«Ci sentiamo ogni tanto. E’ rimasto in Emilia Romagna. Ha trovato lavoro in un ente pubblico e vive non distante dai suoi genitori».
«Quando ti capita di risentirlo, puoi chiedergli se per caso ha voglia di rivedermi?»

I giorni sono trascorsi in fretta e Roberto si è ristabilito velocemente. Ad una settimana dall’influenza intestinale è già pronto per andare a scuola. Oggi, dopo i compiti, ha giocato tutto il tempo con la macchinina gialla della mensola.
Mi telefona nel frattempo Rino dicendomi che mi ha fissato un appuntamento con Fede. E’ tra pochi giorni e devo preparare il bambino per l’evento. Anche se mi sembra abbastanza prematuro mettere Fede al corrente già da subito.

Con Robertino arriviamo alle dieci di un freddo sabato all’appuntamento. E’ già novembre e servono sciarpe e guanti. Il sole sembra plastificato già che riscalda poco.
Il bambino sa che dobbiamo incontrare Fede, il ragazzo della macchinina gialla, sa anche che è seduto su una sedia con le ruote. Proprio per questo ha voluto acquistare in mercerie tanti nastri colorati.
L’atrio del grande palazzo ministeriale è tirato a lucido, è anche deserto e silenzioso. Ci sediamo su uno dei divani d’ingresso e aspettiamo. Siamo in anticipo noi, oppure è in ritardo lui? Boh! Nell’attesa i battiti del mio cuore cominciano ad accelerare. Dopo un po’, vedo Fede sbucare dal fondo.
Ha i capelli un po’ diradati sulle tempie e lo sguardo fiero proprio come me lo ricordavo. E’ un po’ pienotto, la maglia gli fascia il torace e i muscoli delle braccia che sono abbastanza in tensione.
Tengo stretta la mano di Roberto e mi alzo in piedi. Non è solo il mio ex fidanzato è anche il padre di mio figlio, anche se lui non lo sa ancora.
Fede si avvicina a noi, mentre il bambino divincolandosi gli corre incontro.
«Ciao» dice al bambino e guarda anche me.
Roberto s’impossessa della scena
«Ciao Fede, ti piacciono questi colori?»
«Ah! Sai il mio nome, piccolino. Tua madre ti ha parlato di me?» Fede carezza la testa al bambino e continua a guardare me. Sono emozionata e ho gli occhi lucidi. Lui capisce ed evita di farmi sbottare a piangere.
«E con questi nastri, cosa ci facciamo?» chiede al bambino.
«Questi li mettiamo sui raggi delle ruote, così la carrozzina è più allegra la sedia.»
«Però non mi hai ancora detto il tuo nome».
«Roberto» risponde il bambino che giocherella con i nastri.
«Ha lo stesso nome di mio padre. Lisa»
Io mi sono finalmente ripresa dall’impeto dell’emozione.
«Ti sei sposata?»
«Non mi sono sposata. C’è un posto tranquillo dove possiamo parlare?»
«Andiamo a casa mia»

Fede vive da solo in un bell’appartamento ad Imola. Ci fa entrare e ci prepara un the caldo. Ci accomodiamo sul divano e lascia che il bambino armeggi con i nastri colorati e con le ruote della carrozzina.
«Abbiamo tante cose di cui parlare…» gli dico abbassando gli occhi.




Mary
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