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LE LEGGI SPECIALI DEL FASCISMO: INIZIA IL REGIME TOTALITARIO

Ultimo Aggiornamento: 01/04/2010 02:49
01/04/2010 02:49
 
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Nel 1925 Mussolini fece quella specie di "rivoluzione legale" che segnò la fine
della fase liberale vissuta dall'Italia prima della marcia su Roma
LE LEGGI SPECIALI DEL FASCISMO:
INIZIA IL REGIME TOTALITARIO
di ILARIA TREMOLADA
Il 5 novembre 1925 venne presentato un corpo di leggi, poi definite "leggi fascistissime".Questi provvedimenti, che erano stati preceduti da altre leggi di grande rilevanza, furono poi seguiti da ulteriori concepimenti giuridici. Le novità legislative scritte nel biennio '25-'26 rappresentano quella sorta di "rivoluzione legale", ovvero quel complesso organico di leggi autoritarie approvate dal Parlamento dominato dai fascisti, che segnarono la fine della fase liberale della storia italiana e aprirono quella totalitaria. Attraverso questo nutrito corpo di leggi che individua il 5 novembre come la tappa forse prevalente
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Una pubblicazione fascista
e più voluminosa, Mussolini tentava di rendere più chiara la natura del suo potere. Dopo la "marcia su Roma", infatti, lo Stato italiano aveva subito ben poche modifiche che permettessero di capire che il partito al comando fosse, come diceva il suo capo, un partito dalle idee rivoluzionarie nonchè dittatoriali. La convivenza tra il partito fondato dall'ex socialista Mussolini e le strutture liberali dello Stato italiano durò più o meno fino all'inizio del 1925. La trasformazione, che si può dire ebbe inizio con il celebre discorso del 3 gennaio '25, trova motivo scatenante nella reazione dei partiti liberali alla brutale uccisione del leader politico Giacomo Matteotti, passa attraverso l'emanazione del corpo di leggi presentate il 5 novembre 1926, ma non trova mai un punto di conclusione. La metamorfosi dello Stato liberale in Stato fascista non si può infatti dire compiuta.
Arriviamo dunque a percepire che il processo della formazione di un regime totalitario solleva non solo il problema dei tempi e modi relativi alla sua costituzione, ma anche quello della valutazione del risultato. La domanda che gli storici si sono posti è se sia mai esistito un totalitarismo fascista italiano. A questo problema storiografico molto importante per la storia del paese ci si dedicherà dopo un racconto dei fatti che permetterà di capire meglio il senso delle risposte che gli storici del fascismo hanno dato a questo interrogativo.
Come si è già accennato, il delitto Matteotti è il punto di partenza,
Dopo essere stato rapito il 10 giugno 1924, il leader socialista, Giacomo Matteotti, venne trovato morto, nel bosco della Quartarella, a 20 chilometri da Roma, soltanto due mesi dopo. Le prime indagini sul delitto svelarono l'esistenza di una sorta di polizia segreta interna al partito fascista, la Ceka. Quest'ultima prendeva il suo nome dall'italianizzazione della sigla della polizia politica sovietica ed era stata costituita un anno prima dall'incontro tra una decina di squadristi violenti, fanatici e disposti a tutto, e il capo Ufficio stampa della Presidenza del Consiglio, Cesare Rossi. Quest'ultimo era il tramite tra l'organizzazione e il Primo Ministro ed era inoltre il responsabile del servizio di reclutamento degli informatori, spesso scelti negli ambienti giornalistici. Nella vicenda della formazione di questo organo poliziesco sembra essere stato coinvolto anche un membro del direttorio del PNF: Marinelli. La Ceka di cui facevano parte tra gli altri, il toscano Amerigo Dumini e i milanesi Amleto Poveromo, Aldo Putato, e Albino Volpi era una vera e propria struttura parallela che poi si scoprì essere responsabile di una lunga serie di reati di aggressione che rientravano in una strategia preordinata mirante all'eliminazione di tutti quegli elementi che venivano giudicati pericolosi per il fascismo.
Numerosi furono i pestaggi commessi nell'ambito di questa strategia della violenza. Si possono ricordare l'aggressione al dissidente fascista Alfredo Misuri compiuta il 29 agosto 1923; la devastazione dell'abitazione dell'ex presidente del Consiglio Nitti, che avendo colto il messaggio intimidatorio sotteso all'azione violenta decise di lasciare l'Italia poco dopo, e il 12 marzo 1924, a poche settimane dalle elezioni si colloca il pestaggio di Cesare Forni promotore di un'eterodossa lista di fascisti pavesi poi lasciato morire alla stazione ferroviaria di Milano. Se fino al rapimento di Matteotti, avendo colpito persone di minore rilevanza istituzionale (tranne Nitti che però fu solo, si fa per dire, vittima di un'aggressione), la Ceka aveva potuto continuare ad agire indisturbata, con il delitto Matteotti
l'avvenimento che creando una lacerazione non più ricucibile tra i rappresentanti dello Stato liberale e quelli del partito fascista indusse Mussolini a porre fine alla coabitazione tra la vecchia classe post unitaria e la nuova generazione di combattenti.
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Mussoli in posa 'ducesca'
si apriva una scena completamente nuova che avrebbe cambiato la forma dello stato fascista e il suo atteggiamento verso tutto ciò e tutti coloro i quali avevano già mostrato di non aderire al progetto mussoliniano. La prima ed immediata conseguenza del delitto fu la fine della condizione di organo segreto di cui la Ceka aveva fino ad allora goduto, la sua messa sotto inchiesta e inoltre la defenestrazione di De Bono, che perse il posto di capo della polizia, affidato poi a Crispo Moncada. Il processo istituito per indagare sui retroscena del delitto Matteotti chiamò a testimoniare i membri della Ceka ai quali vennero però comminate pene assai lievi indice della volontà di coprire, e allo stesso tempo legittimare un movimento di polizia segreta che svelava in parte i meccanismi occulti di controllo della società. La mano leggera verso lo squadrismo, ancora così vitale, contrastava con il giro di vite che in breve tempo Mussolini avrebbe calato sulla testa di tutti i partiti antifascisti, dei loro organi di informazione e di tutto ciò che in qualche modo non faceva parte del partito fascista.
Pochi giorni dopo la sparizione del deputato socialista, la preoccupazione dell'opinione pubblica e dei partiti di opposizione si sfogò in un'accusa neanche troppo velata contro il duce che naturalmente negò di avere qualsiasi relazione con quanto era accaduto. Possiamo immaginare che l'idea di una reale responsabilità di Mussolini fosse ben radicata tra i politici del tempo. Il partito fascista era gestito dal suo capo e nulla succedeva che lo stesso capo non volesse. È però altrettanto facile immaginare, e peraltro constatare sui libri, che in una struttura come il partito nazionale fascista le manie di grandezza di fanatici assurti improvvisamente ad incarichi di potere potessero avere avuto un peso determinante. Questo è il parere espresso dal grande storico Renzo De Felice, il quale attribuisce la responsabilità del delitto ad alcuni membri del direttorio del partito ed in prima linea a Marinelli. Il sapiente storico del fascismo spiega che Mussolini non era uno stupido e dato per assodato che avesse percepito la pericolosità di Matteotti aveva oltretutto lucidamente calcolato, senza false ipocrisie, che la sua eliminazione non conveniva perchè in quel momento avrebbe creato solamente ulteriori imbarazzi. L'ira espressa dal duce dopo il duro discorso pronunciato dalla vittima, dieci giorni prima di morire, contro il regime, fu perciò, secondo De Felice, volutamente distorta da quei membri del partito ai quali le accuse di Matteotti avevano dato particolarmente fastidio. L'orgoglio maschio di uomini come Cesare Rossi e Marinelli reagì alle provocazioni del deputato e generò attraverso una libera interpretazione della collera mussoliniana, il delitto Matteotti. Il capo del governo parlò più volte nei giorni dopo la sparizione del deputato e in ogni occasione respinse ogni responsabilità da sè e dagli altri membri del partito.
Nonostante tutti gli sforzi che Mussolini ed altri fecero, però, risultava chiaro agli occhi di tutti che il delitto era riconducibile allo squadrismo fascista. Tale convinzione si diffuse presto tra un'opinione pubblica che poteva ancora giovarsi della stampa libera e fu tale da mettere veramente in crisi il partito alla guida del paese. Oltre alla sfiducia del paese Mussolini dovette presto cominciare a fare i conti anche con i partiti all'opposizione. Socialisti unitari, comunisti, repubblicani, popolari, democratici sociali, democratici amendoliani e sardisti di fronte alle accuse di responsabilità rivolte dalle indagine ai gerarchi fascisti approvarono, il 12 giugno, un ordine del giorno nel quale era detto:
"I rappresentanti dei gruppi di opposizione si sono trovati d'accordo nel ritenere impossibile la loro partecipazione ai lavori della Camera mentre regna la più grave incertezza intorno al sinistro episodio di cui è stato vittima il collega Matteotti. Pertanto i suddetti rappresentanti deliberano di comune accordo che i rispettivi Gruppi si astengono dai lavori della Camera e si riservano di constatare quella che sarà l'azione del governo e di prendere ulteriori deliberazioni."
Pur non essendo ancora la dichiarazione di secessione, che verrà fatta due settimane più tardi, questa prima azione contro il governo era pur sempre una netta presa di distanza. Purtroppo però la debolezza di una tale politica di contrapposizione al regime di terrore che stava costituendosi in quelle settimane, basata ancora su una grande fiducia nella possibilità che l'atteggiamento intimidatorio del fascismo e le sue velleità dittatoriali sparissero di fronte alla prima reazione dei partiti di opposizione si basava sull'assunto sbagliato secondo il quale era possibile controllare Mussolini.
Il braccio di ferro tra i partiti e il duce durò diversi mesi durante i quali mai i politici italiani, anche quelli di più lungo corso, ebbero l'acutezza di riflettere sul fatto che una tale e passiva opposizione al fascismo non avrebbe portato a nessun risultato mentre invece impediva che una larga intesa politica tra tutte le forze, compresa la Corona, potesse avere
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Mussolini ed Hitler
qualche possibilità di abbattere il governo Mussolini. La seconda parte del 1924 passò senza che nessuna delle parti in gioco scoprisse nuove carte. Un mutamento della situazione si ebbe solo verso la metà di dicembre quando il fascismo intransigente si organizzò in una sorta di cartello estremista che riuniva i più importanti consoli della Milizia fascista, alcuni fedeli di Farinacci e due gruppi facenti capo alle riviste "Impero" e la "Conquista dello Stato". Questo sodalizio malefico era questa volta rivolto verso quel capo che dava segni di cedimento. Alla vigilia di Natale il gerarca Farinacci su "Cremona nuova" avvertiva Mussolini che avendo ricevuto il suo potere dalle provincie fasciste e non dalla Corona era la volontà di quelle che doveva compiere non già seguire la sua debolezza. Era un chiaro segno del fatto che molti non sopportovano più l'attendismo mussoliniano.
Il messaggio degli intransigenti sbloccò la situazione. Mussolini, il 2 gennaio '25 fece consegnare al Re il decreto per lo scioglimento della Camera che solo la firma del monarca avrebbe permesso. Vittorio Emanuele che poi parlò con il duce, senza che però di questo colloquio sia rimasto un resoconto diretto, non firmò il decreto, ma probabilmente diede a Mussolini sufficienti garanzie perchè egli potesse decidere che era arrivato il momento di prendere di petto la Camera ribelle. Con queste premesse il capo del PNF fece il suo discorso il pomeriggio del 3 gennaio. La sua oratoria fu relativamente breve, ma fin dall'inizio fu capace di comunicare chiaramente quali erano le sue intenzioni. La parte centrale del discorso è molto conosciuta ma è sempre così congeniale alle spiegazioni che vale la pena di rileggerla:
"A tutto questo come si risponde? Si risponde con una accentuazione della campagna. Si dice: il fascismo è un'orda di barbari accampati nella nazione; è un movimento di banditi e di predoni! Si inscena la questione morale, e noi conosciamo la triste storia delle questioni morali in Italia.
Ma poi, o signori, quali farfalle andiamo a cercare sotto l'arco di Tito? Ebbene, dichiaro qui, al cospetto di questa Assemblea e al cospetto di tutto il popolo itlaliano, che io assumo, io solo, la responsabilità politica, morale, storica di tutto quanto è avvenuto.
Se le frasi più o meno stprpiate bastano per impiccare un uomo, fuori il palo e fuori la corda! Se il fascismo non è stato che olio di ricino e manganello, e non invece una passione superba della migliore gioventù italiana, a me la colpa! Se il fascismo è stato un'associazione a delinquere, io sono il capo di questa associazione a delinquere!"
Alla fine Mussolini si rivolgeva ai politici che da mesi carcavano una soluzione con la secessione e diceva:
Quando due elementi sono in lotta e sono irrudicibili, la soluzione è la forza. Non c'è mai stata altra soluzione nella storia e non ce ne sarà mai... vi siete fatti delle illusioni! Voi avete creduto che il fascismo fosse finito perchè io lo comprimevo, che fosse morto perchè io lo castigavo e poi avevo anche la crudeltà di dirlo. Ma se io mettessi la centesima parte dell'energia che ho messo a comprimerlo, a scatenarlo, voi vedreste allora. Non ci sarà bisogno di questo perchè l'Italia è abbastanza forte per stroncare in pieno definitivamente la sedizione dell'Aventino.
L'Italia, o signori, vuole la pace, vuole la tranquillità, vuole la calma laboriosa. Noi, questa tranquillità, questa calma laboriosa glela daremo con amore, se è possibile, e con la forza, se sarà necessario. Voi state certi che nelle quarantott'ore successive a questo mio discorso, la situazione sarà chiarita su tutta l'area.
Tutti sappiamo che ciò che ho in animo non è un capriccio di persona, non è libidine di governo, non è passione ignobile, ma è soltanto amore sconfinato e possente per la patria."
Dopo queste ultime parole la seduta era sospesa: l'Italia cambiava volto.
Il discorso del 3 gennaio non ha certo bisogno di commenti, ma vale la pena di sottolineare come oltre ad essere un insieme di affermazioni confezionate ad arte per riconquistare la fiducia della parte più estremista del partito e per spavetare le già pressochè inermi opposizioni, esso conteneva il senso programmatico delle azioni che Mussolini avrebbe compiuto nei due anni successivi.
Si apre infatti con il discorso di cui abbiamo appena parlato un biennio di pesanti interventi sulle strutture dello Stato, che come si è detto, a giudizio di molti storici, non produsse una vera e propria metamorfosi, ma che in ogni caso modificò sensibilmente la natura del vecchio
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Propaganda per l'organizzazione
giovanile fascista
Stato liberale. Insieme al fatto non secondario che quanto il fascismo fece in questi anni pesò sulla vita degli italiani, nel migliore dei casi complicandola, gli interventi legislativi pensati in gran parte dal giurista Alfredo Rocco sono un punto nodale di grande importanza. Il tentativo di realizzazione dello Stato totalitario culmina nei provvedimenti del novembre 1926, ma è preceduta da altre leggi che passeremo in rassegna, anche se brevemente.
Va però spiegato che quando si parla di una rivoluzione mancata si fa riferimento agli argomenti utilizzati dagli storici per spiegare con precisione cosa successe durante il ventennio fascista alle istituzioni statali, quali sottigliezze differenziano il fascismo mussoliniano e la dittatura hitleriana, quali considerazioni hanno generato per l'Italia fascista la definizione di totalitarismo imperfetto. Certamente l'impatto che il fascismo ebbe sul paese fa parte di un'altra storia, diversa e sicuramente più complicata di quella più tecnica e più facilmente individuabile che risale all'analisi delle istituzioni politiche.
La trasformazione in senso fascista dello Stato cominciò pochi giorni dopo il discorso del 3 gennaio quando il Guardasigilli Alfredo Rocco presentò nelle mani di Mussolini un disegno di legge sulla disciplina delle associazioni, enti ed istituzioni che individuava inoltre i termini dell'appartenenza agli stessi dei dipendenti statali. In base a questa legge i dirigenti delle società e associazioni erano obbligati a consegnare, agli agenti di pubblica sicurezza, l'atto costitutivo, lo statuto e l'elenco degli aderenti all'organizzazione. Non fare quanto imponeva la nuova legge significava automaticamente lo scioglimento dell'associazione in questione. Il provvedimento, per ammissione esplicita dei suo iideatori, era rivolto contro la massoneria, ma i termini vaghi del suo testo avrebbero permesso di agire contro tutta una serie di enti e associazioni che in qualche modo potevano diventare ombra, nonchè ostacolo all'attività del fascismo.
Dopo questa prima prova il governo passò all'attacco. La prima legge fascista di portata costtituzionale fu presentata alla Camera il 18 novembre 1925: si trattava delle modifiche sulle attribuzioni e prerogative del capo del governo. Il disegno di legge apportava novità sostanziali, ma in fondo altro non era se non la mera sanzione giuridica alla situazione di fatto che si era venuta a creare con la progressiva concentrazione nelle mani di Mussolini del potere politico in tutte le sue forme. Il disegno di legge affermava che il capo del governo era l'unico depositario della fiducia della Corona, che era responsabile dell'indirizzo generale del governo. Quest'ultimo, si affermava, era formato dal suo capo, che non era più come nella tradizione liberale un primus inter pares, e dagli altri ministri che erano nominati dal re sotto indicazione del capo del governo stesso. A questo punto, si diceva, i ministri erano responsabili del lavoro dei dicasteri da loro diretti, sia davanti al re, sia davanti al capo del governo.
Poichè una figura di tale rilevanza politica per il paese meritava una giusta protezione, la legge prevedeva inoltre particolari sanzioni penali per chiunque attentasse alla sua vita. Il disegno di legge fu approvato alla Camera senza discussione, mentre dovette ascoltare, al Senato, l'unica voce coraggiosa di Gaetano Mosca che a conclusione del suo discorso disse: "io non avrei mai creduto di dover essere il solo a fare l'elogio funebre del regime parlamentare."
Una volta rafforzato il potere di Mussolini la costituzione dello stato fascista passava obbligatoriamente attraverso la diminuzione dei poteri locali. Soprattutto nei comuni si individuava un'ultima risacca di resistenza che andava necessariamente soppressa. Il primo passo venne fatto con l'introduzione di uno speciale regime amministrativo per Roma proposto con un decreto legge del 28 ottobre 1925. Il sistema creato per la capitale dello Stato era molto complicato basandosi su un governatore, ma anche su una serie di organi di controllo che resero di difficile gestione tutta questa macchina burocratica per questo sottoposta poi negli anni a continue modifiche. Nel resto dei comuni italiani invece venne istituita la figura del podestà nominato dal re e coadiuvato da una Consulta. Strettamente correlata a queste iniziative legislative fu l'ampliamento dei poteri dei prefetti decisa
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Gli infanti soldatini del regime
han già l'aria bellicosa
nell'ottobre '25. Veniva in questo modo rafforzata la coordinazione e la sorveglianza dei vari servizi dell'amministrazione dello stato evitando allo stesso tempo che le continue intrusioni dei gerarchi fascisti nella vita amministrativa delle province continuasse.
Durante questi mesi così importanti per la traformazione dello stato liberale, particolare attenzione fu rivolta alla stampa. Dopo la marcia su Roma l'Italia aveva mantenuto intatta la pluralità politica, partitica e giornalistica a differenza degli altri paesi totalitari come la Germania hitleriana e la Russia staliniana dove le prime vittime furono i direttori responsabili delle testate e i giornalisti. Mussolini che aveva esercitato quella professione aspettò solo il momento giusto per agire. Come se avesse ancora bisogno di una giustificazione alle sue azioni dittatoriali, il duce attese, e solo dopo l'attentato Zaniboni sospese le pubblicazioni dell'"Avanti", "La Giustizia", "La Voce repubblicana", e "l'Unità". Altri quotidiani e periodici subirono le continue incursioni e violenze degli squadristi, mentre il "Corriere della Sera" fu costretto ad estromettere dalla direzione i fratelli Albertini. Conseguenza dell'attentato orchestrato da Zaniboni fu anche lo scioglimento del partito socialista unitario, al quale l'uomo apparteneva.
A quasi un anno dal discorso con il quale il 3 gennaio '25 Mussolini aprì il processo costitutivo dello stato fascista, molte cose erano cambiate in Italia e alcune di queste avevano subito una trasformazione che le rendeva irriconoscibili; tuttavia il duce non era ancora nella condizione di poter agire solamente per mezzo della sua volontà. Il mandato affidatogli con la legge sulle prerogative del capo del governo, nonostante tutto, non permetteva ancora al duce di esercitare il suo potere in modo libero, costringendolo in questo modo ad un'azione che tenesse conto dell'esistenza dei partiti politici avversari del PNF.
In questa condizione, essendoci ancora in Italia, almeno sulla carta, un regime pluralista, Mussolini doveva attendere che qualche avvenimento giustificasse le sue azioni liberticide. Paradossalmente furono proprio coloro che maggiormente volevano la fine del governo fascista che aiutarono il capo del governo nei suoi intenti. Dopo l'attentato Zaniboni, infatti, altre imprese furono orchestrate contro la persona del duce. Il 7 aprile 1926, un'anziana e squilibrata signora inglese, Violet Gibson, ferì leggermente Mussolini al naso sparando un colpo di pistola da distanza ravvicinata. Era però un gesto al quale non si poteva attribuire un significato politico e infatti non ebbe conseguenze.
Diversa fu invece la reazione, qualche mese dopo, all'azione del giovane anarchico Lucetti. L'11 settembre 1926 fu infatti il giorno nel quale lo sgarbo subito da Mussolini, vittima di un nuovo quanto inutile attentato alla sua vita, diede l'avvio al ripristino in Italia della pena di morte. L'idea accolta dal guardasigilli Rocco divenne un disegno di legge che proteggeva le figure del capo del governo, del re, del reggente e della regina da eventuali azioni di altri pazzi mitomani. Mussolini decise però di congelare questo progetto per concentrarsi su ciò che ben presto, grazie alla mano complice di un nuovo attentarore, sarebbe stato occupato a fare: la soppressione delle libertà che caratterizzano uno stato democratico.
L'ultimo giro di vite fu gentilmente offerto, mentre, è da dire, i partiti di opposizione stavano a guardare, da Anteo Zaniboni. Il 31 ottobre 1926 a Bologna Mussolini impavido sfuggì ad un nuovo attentato alla sua persona. Era l'occasione che gli intransigenti aspettavano da tempo. Si potrebbe ragionare su questa ultima osservazione. Si è detto che Mussolini fu spinto a rompere gli indugi con il discorso del 3 gennaio 1925 perchè pressato dallo zoccolo duro formato dagli estremisti del PNF; sulla base di questo è possibile pensare che anche nel '26 l'azione definitiva del duce fosse stata spinta dalla retroguardia. I libri parlano spesso dei difficili rapporti tra Mussolini e i suoi uomini, ma forse rimane ugualmente nebbiosa, e per questo fortemente piena di attrazione, questa parte della storia del fascismo.
La reazione all'atttentato Zaniboni fu immediata. Le squadre mai andate in pensione ripresero i manganelli e diffusero il terrore nelle più importanti città italiane. Milano e Genova vennero messe sotto sopra, mentre a Napoli furono saccheggiate le abitazioni di Croce e Labriola. Nel frattempo Federzoni, ministro dell'interno, ordinava, con circolare del 1° novembre, la sospensione fino a nuova disposizione di tutti i giornali di opposizione. Il 5 novembre si riunì il consiglio dei ministri.
Durante la seduta, Federzoni che da tempo per le pressioni dell'ala intransigente del partito non aveva vita facile chiese la sua sostituzione. Mussolini assunse il portafoglio dell'interno che tenne da allora in poi. Prima di lasciare il suo incarico però Federzoni presentò
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Stalin, un altro dittatore
che amava le leggi speciali
una serie di provvedimenti repressivi, le leggi fascistissime, subito adottate dal governo.
Il documento preparato dall'uscente ministro degli interni prevedeva: revisione di tutti i passaporti per l'estero; determinazione di severe sanzioni per il reato di espatrio clandestino; revoca a tempo indeterminato della gerenza di tutte le pubblicazioni quotidiane e periodiche ostili al regime; scioglimento di tutti i partiti , associazioni e organizzazioni esplicanti azione contraria al regime; istituzione del confino di polizia per quanti avessero manifestato il deliberato proposito di commettere atti diretti a sovvertire con la violenza gli ordinamenti costituiti dallo Stato. Nella medesima seduta anche il guardasigilli Rocco presentò un disegno di legge per la difesa dello stato, di cui parleremo tra poco. Le norme proposte durante la riunione del consiglio dei ministri del 5 novembre trovarono presto attuazione insieme alle norme di pubblica sicurezza presentate il giorno seguente. Tra le novità più importanti e di maggior rilievo politico contenuto da questo corpo di leggi c'erano il confino di polizia sia per i reati comuni che per quelli politici e la facoltà data ai prefetti di sciogliere tutte quelle associazioni che svolgessero attività contraria all'ordinamento nazionale. L'articolo 2 inoltre lasciava ai prefetti una larga autonomia che permetteva loro di adottare tutti quei provvedimenti che ritenessero necessari per la tutela della pubblica sicurezza tra i quali era naturalmente raccomandato l'utilizzo della facoltà di interrompere le pubblicazioni dei quotidiani considerati avversi al governo.
Di questo susseguirsi veloce di azioni che presto avrebbero cancellato ogni residuo di libertà fece parte il 9 novembre, con la riapertura della Camera, la liquidazione dell'opposizione aventiniana compiuta attraverso la dichiarazione di decadenza del mandato parlamentare di 120 deputati. Lo stesso giorno passò, con soli 12 voti contrari, la legge sulla difesa dello Stato.
Pubblicata il 26 novembre 1926, la legge sulla difesa dello Stato prevedeva: la pena di morte per gli attentati contro il re, la regina, il principe ereditario e il capo del governo; considerava come reato la ricostituzione delle associazioni e organizzazioni disciolte per ordine della pubblica autorità; stabiliva per i fuori usciti che facessero all'estero propaganda contro il regime la pena della reclusione da 5 a 15 anni, con l'interdizione perpetua dai pubblici uffici, la perdita della cittadinanza e la confisca dei beni; istituiva infine, per i reati in essa contemplati, un tribunale speciale formato da ufficiali dell'esercito, della magistratura, dell'aeronautica o della milizia. La legge entrò in vigore il 6 dicembre, mentre il 4 gennaio '27 furono nominati i membri del tribunale speciale. Se questo provvedimento risultò essere un'arma odiosa ed efficace di controllo che contribuì non poco a far passare a chiunque ne avesse la voglia di opporsi al regime mussoliniano, è altresì vero che questo organo di repressione non fu però spietato e assetato di sangue. Le nove condanne a morte, tutte eseguite, sembrano infinitamente tante e disturbano la nostra mente, ma se paragonate ai numeri a più cifre che i libri tedeschi o russi riportano esse risultano risultano un numero, si potrebbe azzardare, veramente poche. Dopo la legge di cui si è appena parlato lostato fascista aveva assunto una sua fisionomia.
Erano stati eliminati tutti i partiti di opposizione; era stata soppressa la libertà di stampa; dichiarati decaduti i deputati che si erano opposti alla dittatura nascente con la secessione dell'Aventino; nello stesso tempo era stato creato un forte partito unico, ma soprattutto il potere era stato acccentrato nelle mani di un unico uomo sopra il quale non c'era nessuno. Inoltre la popolazione avrebbe subito da ora in poi un progressivo processo si fascistizzazione cioè di inserimento nelle strutture sociali e politiche create dal partito unico: associazioni lavorative e ricreative dopolavoro, sindacati per la difesa dei diritti dei lavoratori, ordini professionali.
Ciò che il fascismo seppe fare nel biennio '25-'26 e negli anni successivi fu molto, troppo per gli italiani, ma sotto un altro punto di vista fu un lavoro comunque insufficiente.
Lo stato fascista presentava se stesso come uno stato totalitario. La presunzione mussoliniana di avere creato uno stato di questo tipo nacque probabilmente, nella mente del dittatore, con l'emanazione delle leggi fascistissime che come si è già detto furono un punto di svolta fondamentale perchè recisero i legami ancora esistenti con lo Stato liberale.
Dopo più di 50 anni dalla fine dell'era fascista gli storici italiani che si sono maggiormente occupati di questo argomento così centrale nella storia del paese sono concordi nell'affermare che lo stato costruito dal partito fascista non fu totalitario nell'accezione più profonda del termine. Se si sovrappone il modello di uno stato veramente totalitario come quello nazista a quello fascista si vede infatti che nonostante la volontà mussoliniana, molti furono i compromessi che il dittatore italiano dovette accettare e che invece per un'atteggiamento che non lasciava spazio ad altro che al suo progetto di potere e distruzione, Hitler neanche volle prendere in considerazione.
Per intenderci, il nazismo fu un esperimento di stato monocratico, mentre il fascismo avendo accettato la presenza della monarchia e quindi lo statuto da cui essa discendeva e da cui peraltro discendeva per mandato anche il potere di cui Mussolini tanto si vantava non lo fu mai.
La possibilità che il fascismo creasse uno stato totalitario fu inoltre resa impossibile dal compromesso tacito sottoscritto con la chiesa romana. Essa ebbe sempre degli spazi privilegiati entro i quali muoversi. Di questi spazi si avvantaggiò il lavoro il lavoro svolto dall'Azione cattolica attraverso la formazione di un nutrito numero di giovani che sarebbero poi diventati i dirigenti politici dell'Italia postbellica. Questi elelmenti, diciamo di disturbo, furono fonte di preoccupazione, ma furono soprattutto dei concorrenti al potere. Furno inoltre causa di forti contrasti interni che impedirono al fascismo di creare una classe dirigente forte, compatta e perciò in grado di piegare l'insieme della società e delle sue istituzioni alla realizzazione del progetto totalitario.
I dirigenti del partito fascista non furono mai omogenei dal punto di vista culturale e politico, furono al contrario divisi e spesso in lotta tra loro. Il potere del duce e il carisma della sua personalità, presto oggetto di uno smodato culto, non bastarono per tenere insieme una classe politica che piuttosto che cercare di annientare i poteri concorrenti della chiesa e della corona approfittava delle scuciture generate dal loro scontro per primeggiare nell'ambito stesso del partito.
Si potrebbe concludere, come insegna lo storico Emilio Gentile, tra i maggiori e più autorevoli studiosi del fascismo, che la storia del fascismo fu la storia delle tensioni tra un fascismo autoritario ed un fascismo totalitario. Mentre il secondo faceva capo all'ala intrasigente del partito che cercò negli anni '30 di continuare l'opera istitutiva iniziata alla metà del decennio precedente, il primo tipo di fascismo, quello cioé che considerava lo stato compiuto con le riforme poste in essere dal '25 al '29 ebbe come alleati quegli organi che Mussolini decise di risparmiare: la corona e la chiesa e per questo ebbe miglior gioco.
Osservando le strutture dello stato fascista e confrontandole con quelle degli stati definiti compiutamente totalitari gli storici hanno cercato di definire lo stato che Mussolini ha creato in vari modi tra i quali la più esplicativa ci sembra essere questa: "totalitarismo imperfetto".
BIBLIOGRAFIA
  • Fascismo: storia e interpretazione, di Emilio Gentile, Roma-Bari, Laterza, 2002.
  • La via italiana al totalitarismo, di Emilio Gentile, Roma, La Nuova Italia Scientifica, 1995.
  • Una dittatura moderna, di Alberto De Bernardi, Milano, Bruno Mondadori, 2001.
  • L'organizzazione dello stato totalitario, di Alberto Aquarone, Torino, Einaudi, 1995.
  • Mussolini il fascista, I la conquista del potere 1921-1925, di Renzo De Felice, Torino, Einaudi, 1966.
  • Mussolini il fascista, II l'organizzazione dello stato fascista
  • 1925-1929, di Renzo De Felice, Torino, Einaudi, 1968.
http://www.storiain.net/arret/num88/artic1.asp


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