Attenzione: l'America sta diventando protezionista

Versione Completa   Stampa   Cerca   Utenti   Iscriviti     Condividi : FacebookTwitter
Arvedui
00sabato 27 ottobre 2007 22:33
Attenzione: l'America sta diventando protezionista
15 ottobre 2007

Attenzione: l'America sta diventando protezionista
di Mario Margiocco

Almeno quattro sono le spinte emerse finora dall'interminabile campagna elettorale americana e una di queste, in particolare, tocca l'area euro in genere e l'Italia in modo più che sensibile. Questo perché l'Europa della moneta unica ha negli Stati Uniti di gran lunga il primo partner commerciale in assoluto per l'export (la Cina ha battuto gli Usa nel gennaio-maggio 2007 per l'import) e l'Italia in particolare ha negli Stati Uniti con oltre 12 miliardi di euro nel periodo gennaio-giugno 2007 il terzo mercato di sbocco dopo Germania e Francia, e il primo extra-Ue.

I quattro segnali lanciati finora dagli umori americani dicono che la politica estera e soprattutto le azioni militari saranno più caute; che ci sarà una qualche forma di assicurazione medica aperta anche ai quasi 50 milioni che oggi , stabilmente o ciclicamente, ne sono esclusi; che l'immigrazione sarà più difficile; e, segnale emerso più chiaro di tutti finora, che gli Stati Uniti stanno maturando una decisa spinta protezionistica.

L'umore nazionale dice che le merci straniere, di cui l'America è stata finora un ingordo consumatore, saranno probabilmente in futuro meno benvenute. E il motivo di fondo è chiaro: poiché il 90% degli americani ritiene di aver compiuti passi indietro economicamente o di essere rimasto fermo o comunque lontano da una ragionevole partecipazione all'accresciuta ricchezza nazionale, e poiché causa fondamentale di questo secondo molta opinione pubblica è che le imprese americane preferiscono produrre all'estero o acquistare dall'estero, l'estero sarà accolto meno bene.

La tendenza è in atto da tempo (si veda "Gli Usa dei neo-protezionisti", Il Sole 24 Ore, edizione a stampa del 25 novembre 2006, a pagina 11), ma sta pericolosamente accelerando e il termometro migliore è stata la conversione del candidato favorito, Hillary Clinton, schierata ormai molto chiaramente su posizioni ben diverse da quelle che furono le linee-guida del marito Bill Clinton, da lei attivamente a suo tempo sostenuto. Bill si batté senza esitazioni per il Nafta (l'accordo di libero scambio con Canada e Messico) nel 1993. Adesso Richard Gephardt, l'ex deputato del Missouri che cercò nel 2004 la nomination democratica su una piattaforma economica protezionisa e fu battuto da John kerry, è un importante consigliere economico di Hillary Clinton. Gephardt può essere considerato insieme a Ross Perot, l'indipendente che nel '92 corse per la Casa Bianca con un programma anti-Nafta, il padre del neo-protezionismo americano. Esi vede. Hillary parla ora di "riesaminare" il Nafta, di bloccare ogni nuovo accordo commerciale fino a quando tutta la politica dell'import non sarà rivista,di inserire e far rispettare clausole sociali (paghe, lavoro minorile, dumping) in tutti gli accordi.

L'obiettivo specifico non è l'Europa, ma l'Asia e l'America Latina. La marea montante però è di tali proporzioni, e gli strumenti legislativi del codice Usa del commercio così efficaci e ben oliati per una guerriglia commerciale (soprattutto le sezioni 201 e 301 della Trade law), da non potere essere sottovalutata, anche dall'Europa. Qualcosa è cambiato dalla fine del secolo scorso quando, ha detto Hillary Clinton, "il commercio era a saldo positivo per l'America e il lavoratore Americano" e ora "occorre su tutto una riflessione molto seria". La stessa Hillary affermava nel 97:: "Il fatti evidente è questo: che i Paesi del liberoscambio hanno performances superiori". Non ha più ripetuto, e già dal 2005, elogi del genere.

Gli Stati Uniti hanno perso almeno 3 milioni di posti di lavoro industriali dal 2000 e soprattutto c'è la stagnazione dei redditi da parte di chi un posto l'ha mantenuto o ritrovato. Da tempo la risposta è stata in programmi di riqualificazione , e in sussidi. "Ma che cosa si racconta a un lavoratore di 55 anni che perde il posto - dice John Edwards, il più populista, protezionista e vicino al sindacato dei candidati democratici), che lo rieduchiamo? E a fare che?".

E' vero che la campagna elettorale spinge a coltivare le "estreme" mentre una volta insediato il partito che ha vinto cerca in genere di moderarne gli eccessi. Ma la sfiducia nel liberoscambio è ormai crescente da quindici anni almeno, profonda, e risponde a un senso così vivo di disorientamento che non può, nemmeno dall'Europa, essere sottovalutata. Il Paese che più di tutti ha avuto un ruolo nella liberalizzazione dei mercati, dalle lontane prime mosse di Franklin Roosevelt nel 1934 agli accordi di Bretton Woods fatti per garantire i commerci più ancora che le monete al Naft alla creazione del Wto, sta cambiando pelle. E il fatto che siano i democratici, partito a lungo e storicamente liberoscambista, a dire oggi quello che i repubblicani dicevano alcuni decenni fa, è più preoccupante ancora.

I candidati del partito repubblicani - assai mal messo e in netta crisi - difendono il liberoscambio, a ruoli storifamente inveriti, ma non possono ignorare la realtà. Un sondaggio recentissimo del Wall Street Journal dice che in varia misura due elettori repubblicani su tre ritengono l'apertura dei mercati dannosa o comunque problematica. Già a gennaio un altro sondaggio Bloomberg indicava nel 40% dell'opinione pubblica americana i sostenitori del neo-protezionismo, che naturalmente non si chiama così ma fair-trade, commercio giusto.

Nel '92 il voto popolare raccolto da Ross Perot fu pari al 19% e quello può essere considerato il nocciolo duro di allora. Oggi siamo a ben oltre il doppio. E il voto del 2008, fra poco più di un anno, potrebbe indicare che i neo protezionisti negli Stati Uniti sono diventati maggioranza. A quel punto non potremo non accorgercene, anche nelle nostre esportazioni.


http://www.ilsole24ore.com/art/SoleOnLine4/Attualita%20ed%20Esteri/Esteri/2007/10/america-protezionista.shtml
DarkWalker
00domenica 28 ottobre 2007 19:34
Sarebbe bello se prima del declino USA ci fosse una UE forte...invece ci sarà solo una Cina mi sa.
Negli ultimi 10 anni i governi statunitensi si sono preoccupati maggiormente, troppo, della politica estera (che poi non è gratis),rimandando molti arogmenti spinosi come la riforma del sistema sanitario che ormai è improragabile....
Lux-86
00lunedì 29 ottobre 2007 17:18
In effetti è paradossale che gli USA spendano milioni di dollari per difendere la UE quando il cittadino medio UE sta meglio del cittadino medio americano. Senza contare poi le guerre assurde tipo Iraq.
-Giona-
00lunedì 29 ottobre 2007 17:28
Se gli USA diventano protezionisti, non possiamo noi europei fare altrettanto?
Arvedui
00lunedì 29 ottobre 2007 17:52
Re:
DarkWalker, 28/10/2007 19.34:

Sarebbe bello se prima del declino USA ci fosse una UE forte...invece ci sarà solo una Cina mi sa.
Negli ultimi 10 anni i governi statunitensi si sono preoccupati maggiormente, troppo, della politica estera (che poi non è gratis),rimandando molti arogmenti spinosi come la riforma del sistema sanitario che ormai è improragabile....



Non credo, la fine delle politiche neoliberiste e una maggiore responsabilità di bilancio (sia commerciale che statale) serviranno proprio a rafforzare la posizione americana nel mondo (uno stato col bilancio in attivo è certamente più forte di uno con bilancio fortemente in rosso come adesso) danneggiando maggiormente l'economia export-oriented come quella cinese ed in minore quella europea, danno che potremmo evitare se riusciremmo a riorganizzare anche noi la nostra economia: visto il bilancio commerciale americano in deficit, viene da se che o esportano di più (sussidi e altre cose del genere) o importano di meno, cioè imponendo dazi sulle merci straniere: e qui noi europei dovremo cercare in tutti i modi di venirne esclusi. La cancelliera tedesca lo ha capito benissimo (e anche Sarkozy) e infatti è da quando è salita al potere che sta cercando di creare una zona di libero scambio Stati Uniti-Europa, in modo tale da prevenire sul nascere l'eventualità che le prossime politiche commerciali americane danneggino le esportazioni europee... è un pò la futura politica dei "blocchi commerciali" di cui discutevamo tempo fa con cointreau e pertinax


@Giona
I candidati (quasi tutti i democratici, ma anche Giuliani e McCain) non parlano di protezionismo vero e proprio stile anni venti, ma di "fair trade" cioè evitare trattati di libero scambio e rinegoziazione di molti trattati commerciali con paesi che fanno dumping commerciale, che danneggerebbero i lavoratori americani e soprattutto che non rispettano i diritti dei lavoratori; il riferimento alla Cina è fin troppo esplicito [SM=x751561]
Lux-86
00lunedì 29 ottobre 2007 17:56

è un pò la futura politica dei "blocchi commerciali" di cui discutevamo tempo fa con cointreau e pertinax




Come i tre stati di 1984? [SM=x751545]
Arvedui
00lunedì 29 ottobre 2007 18:06
Re:
Lux-86, 29/10/2007 17.56:


è un pò la futura politica dei "blocchi commerciali" di cui discutevamo tempo fa con cointreau e pertinax




Come i tre stati di 1984? [SM=x751545]



Chiedilo ai noglobal & soci, sono anni che auspicano la fine del commercio mondiale [SM=x751545]


DarkWalker
00lunedì 29 ottobre 2007 19:49
Non so, anche dopo la crisi del '29 si è persa la dimensione mondiale del commercio in favore di quella "nazionale" (diciamo autarchica? :D) e guarda com'è finita...^^
Arvedui
00martedì 30 ottobre 2007 23:31
Gli Usa dei neo-protezionisti

di Mario Margiocco

su Il Sole 24 Ore del 25/11/2006

«Non sappiamo ancora esattamente quale sarà il nuovo cammino, ma certamente lo imboccheremo frenando». E la frenata ci sarà sul commercio e l'apertura delle frontiere, secondo Lori Wallach, direttore di Global Trade Watch creato nel '95 nella galassia di Ralph Nader, il veterano di tante battaglie populiste. La Wallach, una fotogenica trade lawyer, è stata catapultata a un ruolo nazionale.
E tutto grazie ai 36 fair traders democratici che soprattutto alla Camera (29) e al Senato (7) hanno sostituito altrettanti free traders repubblicani. Su un totale di 50 nuovi ingressi, 41 deputati e 9 senatori. L'idea dei mercati aperti disturba ormai l'americano medio che vede crescere il Pil nazionale, salito pro capite di quasi l'80% dal 1973 in termini reali, e non la paga oraria media, aumentata soltanto del 15% scarso. E dà la colpa alla concorrenza unfair.
«Dal New England all'Ohio alle Hawaii e a tutto ciò che sta in mezzo, i
risultati delle elezioni di metà mandato hanno rivelato una crescente realtà di candidati che vincono invocando alternative positive per i lavoratori americani... rigettando l'avanzata dello status quo e del modello Nafta-Wto», dichiara Global Trade Watch. E non è molto rispetto a quanto ogni sera, nel programma più seguito della Cnn, proclama dal video Lou Dobbs in «Lou Dobbs tonight», con «avidi aministratori delegati», che «mettono le classi medie in diretta competizione con il malpagato lavoro straniero senza riguardo per le
conseguenze sociali». Non è solo retorica. Una buona quota dell'elettorato americano ha sottoscritto.
«C'è una tremenda reazione contro la liberalizzazione del commercio», ha dichiarato a metà novembre l'ex ministro del Tesoro Robert Rubin, parlando a un gruppo di banchieri internazionali a Hong Kong. «Ed è uno dei pericoli maggiori con i quali l'economia globale deve fare i conti». Rubin, padre della "Rubinomics", ebbe come consigliere economico di Bill Clinton prima e come ministro del Tesoro poi un ruolo fondamentale nello stoppare le spinte protezionistiche. Proprio negli anni di Clinton, e poco prima, si rovesciava infatti un trend più che secolare che aveva visto protezionisti i repubblicani e liberoscambisti i democratici. Dal 2001 sono stati cancellati oltre 3 milioni di posti di lavoro industriali. Le ultime massicce liquidazioni di impianti e posti di lavoro da parte di Gm, ma anche di Ford, segnano dopo 50 anni l'inesorabile uscita dalla classe media di ceti operai che lasciano un lavoro da 20 dollari l'ora per trovarne uno da dieci, quando va bene. Mentre Toyota, che ha sette impianti nordamericani, è ormai il primo produttore. Al voto di inizio novembre hanno stravinto numerosi candidati come Sherrod Brown, neo senatore per l'Ohio, dove sono stati persi 200mila posti di lavoro industriali dal 2001 a oggi, e che ha fatto campagna e vinto solo sul fair trade. Brown è autore di Myths of free trade: why american trade policy has failed. Fa il paio con Take this job and ship it, titolo ancora più esplicito del senatore Byron Dorgan, democratico del North Dakota. James Webb ha strappato sul filo di lana un seggio senatoriale per la Virginia promettendo che si concenterrà sulla economic fairness in un Paese troppo diviso da distinzioni di classe nell'era della globalizzazione e dell'internazionalizzazione della corporation americana». Bruce Barley ha vinto in Iowa incolpando per la perdita di posti di lavoro nello Stato «gli ingiusti accordi commerciali» del Governo Bush.Molti candidati democratici hanno applicato la lezione suggerita da Bernie Sanders del Vermont, indipendente, che già nel 2004 vinse in 47 dei 48 seggi dove, per le contemporanee presidenziali, Bush batteva John Kerry. L'arma vincente fu ed è stato anche ora il populismo economico, cioè la difesa dei piccoli contro gli interessi dei grossi gruppi globali, che scavalcano ormai il lavoratore americano. Ora Sanders, che ha un voto pieno di 100 punti dal sindacato Afl-Cio come difensore dei lavoratori (sindacalizzati), ha vinto con il 65% dei voti il seggio senatoriale in palio, e sarà il primo politico americano a definirsi ufficialmente socialista a entrare in Senato.
L'altro apripista è stato Dick Gephardt, per 28 anni deputato del Missouri, candidato nel 2004 alle presidenziali e battuto per la nomination democratica da Kerry. Prima sostenitore delle liberalizzazioni reaganiane, poi sempre più populista e critico degli eccessi del libero commercio internazionale, Gephardt può essere considerato con Ross Perot (candidato indipendente alle presidenziali del '92 e causa prima della sconfitta di Bush senior), il padre del ritorno al protezionismo. Kerry ne accolse in parte la piattaforma, promettendo nei primi 120 giorni, se eletto, una revisione di tutti i trattati commerciali.
Era uno strappo nella tradizione avviata nel '34 con il Reciprocal trade
agreements act dal presidente Franklin D. Roosevelt. Incominciava allora il calo delle tariffe volute dai repubblicani ormai da 80 anni e che solo con il democratico Woodrow Wilson erano state temporaneamente ridotte. Kennedy e Johnson furono liberoscambisti nella stessa tradizione, poi con Reagan furono i repubblicani a diventarlo e, a fine anni 80, la sirena del protezionismo incominciò a diventare democratica.
Il Congresso è sempre stato arcigno in tema di commercio. Le armi
protezionistiche, in particolare le sezioni 201 e 301 della Trade law usate nelle azioni antidumping e di accesso al mercato, sono pronte. È scontato che la Tpa concessa a Bush nel 2002 (Trade promotion authority, cioè il nuovo fast track che demanda all'Esecutivo e prevede l'approvazione o bocciatura in blocco degli accordi commerciali) non verrà rinnovata nel 2007. Approvata nel 2001 con un solo voto di scarto, fu votata per Bush l'anno dopo con tre soli voti. Il guaio è che la maggioranza, anche nel Congresso repubblicano difficile, oggi non c'è più. Washington ha mandato Bush ad Hanoi a metà novembre bocciando il rinnovo del commercio con quel Paese. Altri trattati bilaterali e regionali, con Perù e Colombia ad esempio, sono ora fortemente a rischio.
Nei nuovi arrivi democratici alla Camera, soprattutto, il New York Times ha identificato «un forte filone di populismo economico che ne rappresenta la forza unificante». Tonificato, Charles Rangel di New York, veterano di 35 anni alla Camera e probabile presidente dell'importante Ways and Means Committee, ha già chiesto alla Casa Bianca di essere più severa con la Cina. Al Congresso ci sono pronte 27 proposte di legge anti-Cina del 2005-2006. «Ora che i democratici controllano il Congresso, i cinesi lasceranno che la loro moneta si apprezzi più in fretta», dice Ed Yardeni, capo stratega alla Oak associates di Akron, Ohio, gestore di fondi, e convinto che, ormai al comando in Congresso, i democratici «potrebbero moderare le loro minacce protezioniste dovendo agire in maniera più responsabile». Una previsione o un augurio? Rubin, un pragmatico prima di tutto, ha detto recentemente che la nuova ineguaglianza economica «èun fatto della realtà americana di profondo disturbo », una minaccia sia per il commercio che per la stabilità «della società democratica e capitalista». Visto il successo dei fair traders, e poiché la partita si chiuderà solo dopo le presidenziali del 2008, aspettarsi due anni di America partner difficile non è azzardato.
-Kaname-chan
00martedì 30 ottobre 2007 23:38
Re:
DarkWalker, 29/10/2007 19.49:

Non so, anche dopo la crisi del '29 si è persa la dimensione mondiale del commercio in favore di quella "nazionale" (diciamo autarchica? :D) e guarda com'è finita...^^



Infatti: il protezionismo è pericolosissimo. Non solo costringe i consumatori ad accollarsi i prodotti nazionali di rapporto qualità-prezzo più basso di un prodotto che acquisterebbero in libero commercio, ma creando blocchi commerciali chiusi porta ad un'ovvia conseguenza, ovvero la guerra come unico modo per allargare la propria influenza commerciale, proprio come è successo nel primo dopoguerra...

-Kaname-chan
00martedì 30 ottobre 2007 23:46
Re: Re:
Arvedui, 29/10/2007 18.06:



Chiedilo ai noglobal & soci, sono anni che auspicano la fine del commercio mondiale [SM=x751545]





La cosa è sconcertante però. In teoria dovrebbero essere internazionalisti e favorevoli ai poveri: il libero scambio sta facendo uscire letteralmente miliardi di persone dalla povertà e loro stanno ad applaudire Chavez [SM=x751545]


Ace Ventura
00giovedì 1 novembre 2007 15:02
Re: Re:
-Kaname-chan, 30/10/2007 23.38:



Infatti: il protezionismo è pericolosissimo. Non solo costringe i consumatori ad accollarsi i prodotti nazionali di rapporto qualità-prezzo più basso di un prodotto che acquisterebbero in libero commercio, ma creando blocchi commerciali chiusi porta ad un'ovvia conseguenza, ovvero la guerra come unico modo per allargare la propria influenza commerciale, proprio come è successo nel primo dopoguerra...





si tratterebbe di una regressione più che di un miglioramento, se ne guardi bene anche l' ue, che attua un protezionismo di tipo monetario.
cointreau il possente
00domenica 23 dicembre 2007 17:06
Re: Re: Re:
Arvedui, 29/10/2007 18.06:



Chiedilo ai noglobal & soci, sono anni che auspicano la fine del commercio mondiale [SM=x751545]





Quello che era il movimento no-global è sempre stato molto eterogeno e di certo solo una esigua minoranza, per giunta praticamente ininfluente sul movimento, chiedeva la "fine del commercio mondiale", se riesco a intuire quel che volevi dire, arvedui.
Che poi i mass-media, per un intreccio di ignoranza, spettacolarizzazione, eccesso di sintesi e fini politici abbiamo riassunto tutte le posizioni del movimento nello slogan no-global, ovvero anti-globalizzazione, ovvero anti-sol dell'avvenire del mondo perfetto che sarebbe venuto con il "libero commercio" così come inteso dal Washington Consensus enunciato nel '91 dall'allora direttore della Banca Mondiale Williamson, è cosa diversa. Purtroppo l'operazione mediatica è riuscita spettacolarmente, se a distanza di 10 anni i fu no-global sono ancora associati all'idea di essere contro il progresso, il commercio e quel che volete.
Per completezza e pedanteria (mia), e sperando di portare un po' di luce (ma credendoci poco, dato che non è la prima volta che scrivo quanto segue), va detto che i no-global, nelle loro mille sfaccettature e nella loro eterogeneità, per lo meno nel contributo teorico delle maggiori teste pensanti, si richiamavano in gran parte ad una visione sociale keynesiana e socialdemocratica della società che poteva spingersi fino ad una contestazione sistemica del capitalismo, contrapposta all'ideologia del pensiero unico neoliberista (friedmaniano) della Scuola di Chicago, che è riassunta mirabilmente dalla fervente Kaname in questo passaggio:

-Kaname-chan, 30/10/2007 23.46:



In teoria dovrebbero essere internazionalisti e favorevoli ai poveri: il libero scambio sta facendo uscire letteralmente miliardi di persone dalla povertà [SM=x751545]





che è un'enunciazione di fede più che un dato su cui discutere (nè dal quale partire per discutere).
Per fortuna, trapassato il buon Milton ed essendo molti dei suoi ferventi allievi e discepoli coinvolti in scandali di corruzione e ruberie in ogni parte del globo (gli ultimi ancora liberi siedono nell'amministrazione Bush), nonchè essendo ormai accolti a risate e calci nel sedere in quasi tutti i paesi in via di sviluppo (per assurdo solo noi occidentali ancora continuiamo nella liturgia della fede liberista, ma con sempre minor convinzione da parte del popolino, basta orecchiare due discorsi in qualsiasi bar d'Italia), credo che in capo a cinque anni non ci sarà nemmeno più bisogno di discutere tra supporter della globalizzazione a anti-globalizzatori. Anche perchè avremo ben altri problemini, lasciatici in eredità dall'ideologia di quel Darth Vader chiamato Milton Friedman.
Saluti.
-Kaname-chan
00domenica 23 dicembre 2007 23:19
Re: Re: Re: Re:
cointreau il possente, 23/12/2007 17.06:



che è un'enunciazione di fede più che un dato su cui discutere (nè dal quale partire per discutere).
Per fortuna, trapassato il buon Milton ed essendo molti dei suoi ferventi allievi e discepoli coinvolti in scandali di corruzione e ruberie in ogni parte del globo (gli ultimi ancora liberi siedono nell'amministrazione Bush), nonchè essendo ormai accolti a risate e calci nel sedere in quasi tutti i paesi in via di sviluppo (per assurdo solo noi occidentali ancora continuiamo nella liturgia della fede liberista, ma con sempre minor convinzione da parte del popolino, basta orecchiare due discorsi in qualsiasi bar d'Italia), credo che in capo a cinque anni non ci sarà nemmeno più bisogno di discutere tra supporter della globalizzazione a anti-globalizzatori. Anche perchè avremo ben altri problemini, lasciatici in eredità dall'ideologia di quel Darth Vader chiamato Milton Friedman.
Saluti.




Ma la visione keynesiana non è che sia veramente contrapposta al mio modo di vedere il mondo [SM=x751545] Dipende da quello che si intende per globalizzazione in effetti. Io non è che dico che i poveri lavoratori cinesi devono essere fustigati dai malvagi imprenditori americani o che lo stato non possa nel modo più assoluto intervenire nella vita economica di un paese, anche se eviterei magari di indebitarmi per far scavare e ricoprire buche dai disoccupati [SM=x751545] Io sono mondialista perché credo che il libero scambio favorisca la crescita economica del mondo e, soprattutto, la pace. Inoltre ritengo che per la maggior parte delle attività economiche lo stato sia deleterio come diretto imprenditore. Forse se fossi svedese la penserei diversamente, visto che li le cose funzionano meglio, però bisogna ammettere che la socialdemocrazia scandinava si è ormai trasformata in una liberal democrazia e lo ha fatto non perché lo ha detto Friedman, ma perché con l'innesto di liberismo che ha avuto è sfuggita al declino e rilanciato se stessa. Questo lo ammetterai almeno. Poi ci possono anche essere settori dove lo stato è più utile, ad esempio nel sistema sanitario: un malato non è un consumatore, soprattutto perché non è in grado di discernere cosa gli conviene, non essendo un medico. Un sistema concorrenziale efficiente è un sistema in cui si riesce a capire cosa conviene acquistare o produrre. Tuttavia non penso che la totale nazionalizzazione del sistema sanitario sia veramente il meglio, lo dimostra la malasanità nostrana. Tu non hai detto che vuoi la nazionalizzazione del sistema USA, è vero. Quindi ho sbagliato. Però io non ho detto che quel sistema è il migliore possibile, ho scritto che sarebbe da riformare, penso che un compromesso tra stato e privati nel sistema sanitario sia la cosa migliore: qualcosa di buono il sistema privato lo deve avere per forza, altrimenti non si spiega perché non sia scoppiata una rivoluzione in USA, propaganda o no con la pelle non si scherza. Riguardo all'arricchimento tramite libero scambio avevo anche le statistiche su quanti cinesi fossero usciti dalla soglia di povertà però le ho perse, come al solito mi frega la pigrizia [SM=x751534] avessi ritagliato le notizie di giornali o riviste o salvato su hard disk la roba che mi capitava di leggere su internet potevo portare un sacco di dati con cui arricchire il forum [SM=x751545] Anche questa sezione, senza di te a causa della svogliatezza della sottoscritta vivacchiava. Fortuna che sei tornato, stimoli come te non me li dà nessuno [SM=x751545]Non è che hai letto l'articolo di Giavazzi sul Corriere riguardo l'Alitalia e lo pubblichi al posto mio? [SM=x751545] A parte questo, per i no global è difficile non prenderli per rifondaroli, a meno di non leggersi un pesante saggio sociologico [SM=x751545] E cmq quelli keynesiani almeno in Italia, se ci sono o sono la classica maggioranza silenziosa o ce ne sono pochini [SM=x751545]
Arvedui
00mercoledì 30 gennaio 2008 23:05
USA: il 40% degli americani è per il neo-protezionismo

Almeno quattro sono le spinte emerse finora dall'interminabile campagna elettorale americana e una di queste, in particolare, tocca l'area euro in genere e l'Italia in modo più che sensibile. Questo perché l'Europa della moneta unica ha negli Stati Uniti di gran lunga il primo partner commerciale in assoluto per l'export e l'Italia in particolare ha negli Stati Uniti il terzo mercato di sbocco.

I quattro segnali lanciati finora dagli umori americani dicono che la politica estera e soprattutto le azioni militari saranno più caute; che ci sarà una qualche forma di assicurazione medica aperta anche ai quasi 50 milioni che oggi , stabilmente o ciclicamente, ne sono esclusi; che l'immigrazione sarà più difficile; e, segnale emerso più chiaro di tutti finora, che gli Stati Uniti stanno maturando una decisa spinta mondo euro_dollaro.jpgprotezionistica.
L'umore nazionale dice che le merci straniere, di cui l'America è stata finora un ingordo consumatore, saranno probabilmente in futuro meno benvenute. E il motivo di fondo è chiaro: poiché il 90% degli americani ritiene di aver compiuti passi indietro economicamente o di essere rimasto fermo o comunque lontano da una ragionevole partecipazione all'accresciuta ricchezza nazionale, e poiché causa fondamentale di questo secondo molta opinione pubblica è che le imprese americane preferiscono produrre all'estero o acquistare dall'estero, l'estero sarà accolto meno bene.

La tendenza è in atto da tempo, ma sta pericolosamente accelerando e il termometro migliore è stata la conversione del candidato favorito, Hillary Clinton, schierata ormai molto chiaramente su posizioni ben diverse da quelle che furono le linee-guida del marito Bill Clinton, da lei attivamente a suo tempo sostenuto. Bill si batté senza esitazioni per il Nafta (l'accordo di libero scambio con Canada e Messico) nel 1993. Adesso Richard Gephardt, l'ex deputato del Missouri che cercò nel 2004 la nomination democratica su una piattaforma economica protezionisa e fu battuto da John kerry, è un importante consigliere economico di Hillary Clinton. Gephardt può essere considerato insieme a Ross Perot, l'indipendente che nel '92 corse per la Casa Bianca con un programma anti-Nafta, il padre del neo-protezionismo americano. E si vede. Hillary parla ora di "riesaminare" il Nafta, di bloccare ogni nuovo accordo commerciale fino a quando tutta la politica dell'import non sarà rivista,di inserire e far rispettare clausole sociali (paghe, lavoro minorile, dumping) in tutti gli accordi.
L'obiettivo specifico non è l'Europa, ma l'Asia e l'America Latina. La marea montante però è di tali proporzioni, e gli strumenti legislativi del codice Usa del commercio così efficaci e ben oliati per una guerriglia commerciale (soprattutto le sezioni 201 e 301 della Trade law), da non potere essere sottovalutata, anche dall'Europa. Qualcosa è cambiato dalla fine del secolo scorso quando, ha detto Hillary Clinton, "il commercio era a saldo positivo per l'America e il lavoratore Americano" e ora "occorre su tutto una riflessione molto seria". La stessa Hillary affermava nel 97: "Il fatti evidente è questo: che i Paesi del liberoscambio hanno performances superiori". Non ha più ripetuto, e già dal 2005, elogi del genere.
Gli Stati Uniti hanno perso almeno 3 milioni di posti di lavoro industriali dal 2000 e soprattutto c'è la stagnazione dei redditi da parte di chi un posto l'ha mantenuto o ritrovato. Da tempo la risposta è stata in programmi di riqualificazione , e in sussidi. "Ma che cosa si racconta a un lavoratore di 55 anni che perde il posto - dice John Edwards, il più populista, protezionista e vicino al sindacato dei candidati democratici), che lo rieduchiamo? E a fare che?".
E' vero che la campagna elettorale spinge a coltivare le "estreme" mentre una volta insediato il partito che ha vinto cerca in genere di moderarne gli eccessi. Ma la sfiducia nel liberoscambio è ormai crescente da quindici anni almeno, profonda, e risponde a un senso così vivo di disorientamento che non può, nemmeno dall'Europa, essere sottovalutata. Il Paese che più di tutti ha avuto un ruolo nella liberalizzazione dei mercati, dalle lontane prime mosse di Franklin Roosevelt nel 1934 agli accordi di Bretton Woods fatti per garantire i commerci più ancora che le monete al Naft alla creazione del Wto, sta cambiando pelle. E il fatto che siano i democratici, partito a lungo e storicamente liberoscambista, a dire oggi quello che i repubblicani dicevano alcuni decenni fa, è più preoccupante ancora.
I candidati del partito repubblicani - assai mal messo e in netta crisi - difendono il liberoscambio, a ruoli storicamente inveriti, ma non possono ignorare la realtà. Un sondaggio recentissimo del Wall Street Journal dice che in varia misura due elettori repubblicani su tre ritengono l'apertura dei mercati dannosa o comunque problematica. Già a gennaio un altro sondaggio Bloomberg indicava nel 40% dell'opinione pubblica americana i sostenitori del neo-protezionismo, che naturalmente non si chiama così ma fair-trade, commercio giusto.
Nel '92 il voto popolare raccolto da Ross Perot fu pari al 19% e quello può essere considerato il nocciolo duro di allora. Oggi siamo a ben oltre il doppio. E il voto del 2008, fra poco più di un anno, potrebbe indicare che i neo protezionisti negli Stati Uniti sono diventati maggioranza. A quel punto non potremo non accorgercene, anche nelle nostre esportazioni.

http://www.clandestinoweb.com/number-news/usa-il-40-degli-americani-per-il-neo-protezionismo-2.html


E secondo me hanno pienamante ragione. Ormai un sistema del genere non è più sostenibile. A parte le varie considerazioni che si possono fare sul fatto che certi prodotti esteri a basso costo possono giovare al consumatore, non possiamo non considerare l'abnorme deficit commerciale che si è venuto a creare fra gli stati Uniti ed i paesi esteri, che ormai è diventato insostenibile (intendiamoci, in proporzione il debito americano è molto più basso di quello italiano o giapponese). La cosa che mi stupisce sono i numeri, non credevo che l'opinione pubblica fosse così disaffezionata all'attuale sistema, anche se dalla composizione del congresso si poteva capire: attualmente al Senato americano ci sono circa 35 senatori cosiddetti "fair-traders", e dal 2009 se ne prospettano altri. Quindici anni fa al Senato non ce n'era manco uno. vedremo..
DarkWalker
00domenica 11 maggio 2008 11:23

«Inevitabile che in tempi di crisi economica il dibattito prenda una piega protezionista»
Bhagwati: «Troppe paure inutili sull'Asia.
La concorrenza avviene tra Stati efficienti»
Parla l'economista di origine indiana difensore del «free trade»: libero scambio minato dai tanti accordi bilaterali


NEW YORK - «Obama la sta spuntando sulla Clinton ed è un bene. Certo, il dibattito in casa democratica ha preso da tempo una piega protezionista. Non è una buona notizia per chi, come me, crede nella globalizzazione. Ma in un periodo di incertezza economica, nel clima di paura che si è creato, era in parte inevitabile. Non credo, comunque, che la cosa avrà grosse conseguenze concrete. L'economia aperta è ormai una realtà consolidata. E, comunque, le credenziali del senatore dell'Illinois sono sicuramente migliori di quelle di Hillary, per quanto riguarda la fiducia nel mercato».
Jagdish Bhagwati, l'economista di origine indiana della Columbia University che da anni è il difensore più determinato delle frontiere del liberismo e del «free trade», vive senza troppa angoscia questa fase di grandi rivolgimenti economici - recessione Usa, crisi del credito, esplosione dei prezzi dei cereali e del petrolio - che fanno crescere le tentazioni protezioniste in gran parte dell'Occidente e anche negli Stati Uniti, il Paese-guida della globalizzazione.

Eppure tanto la Clinton quanto Obama promettono, se andranno alla Casa Bianca, di rimettere in discussione le politiche attuali a cominciare dal Nafta, l'accordo di libero scambio tra Usa, Messico e Canada.
«E' solo retorica. Mi aspetto qualche aggiornamento dei patti: una cosa del tutto comprensibile, vista la complessità del trattato e la rapida evoluzione della realtà economica. Ma non ci saranno dietrofront. Sarebbe come scatenare una guerra termonucleare sapendo di esporre la propria popolazione alla rappresaglia del nemico. Poi che si fa? Si cacciano 12 milioni di immigrati clandestini ispanici? So che le campagne elettorali condizionano la dialettica politica e non mi spavento. Semmai, da democratico, noto con piacere che Obama è riuscito a non finire nel vortice delle promesse demagogiche ai sindacati. E' anche l'unico candidato che ha avuto il coraggio di scontrarsi con Lou Dobbs, il tribuno che ogni sera, dagli schermi della Cnn, aizza per un'ora l'America, invitandola a osteggiare il "free trade" e a mandare via gli immigrati».

Il clima, però, è molto cambiato. E' cambiato anche rispetto a tre anni fa quando, davanti alle prime critiche alla piena apertura dei mercati come quelle di Stiglitz, lei replicò col suo "In difesa della globalizzazione" (divenuto "Contro il protezionismo" nell' edizione italiana), il libro di riferimento di tutti i sostenitori del "free trade". E' cambiato qui ed è cambiato in Europa. Nelle recenti elezioni italiane, ad esempio, molti operai spaventati del Nord sono passati dai partiti della sinistra alla Lega.
«Certo non sono tempi facili e il problema non è solo quello delle paure poco razionali che si diffondono o della contrazione dei redditi dei lavoratori più esposti alla concorrenza internazionale. Nel mio prossimo libro "Termiti nel sistema commerciale" (uscirà a luglio), racconto, ad esempio, come una fitta rete di accordi preferenziali bilaterali abbia finito per minare i meccanismi del libero scambio. Tutti questi accordi - Usa-Perù, Usa-Colombia - sono squilibrati, sono deviazioni dalle regole generali che ne escono indebolite».

Ritira la patente di "liberoscambista" anche a Bush?
«Riconosco ai repubblicani una certa coerenza sui temi del mercato. Ma questa Amministrazione ha fatto errori clamorosi. Ad esempio quello di costringere il Congresso a discutere e votare una miriade di accordi commerciali bilaterali uno alla volta anziché riunirli in una sessione unica. Ai parlamentari possiamo chiedere di essere responsabili, ma non dobbiamo metterli nelle condizioni di dover spiegare agli elettori dei loro collegi che, settimana dopo settimana, si sono occupati sempre di libero commercio con questo o quel Paese».

Francesco Giavazzi, un docente che insegna in Italia e negli Usa e che si batte da anni per far penetrare nel nostro Paese la cultura della sana competizione, del mercato come solvente dei privilegi e delle rendite di posizione, ha notato di recente sul "Corriere", con una certa amarezza, che il mondo sembra andare in una direzione diversa da quella auspicata da chi vorrebbe meno Stato e più mercato: i cittadini premiano non chi propone regole più chiare per far funzionare meglio il capitalismo, ma chi promette protezione dal vento della concorrenza. E si chiede: dove abbiamo sbagliato?
«Certo, non è un periodo esaltante: liberalizzare quando l'economia non cresce è assai difficile. Ma io credo che alla fine la gente capirà che alzando barriere non si va da nessuna parte. Del resto in molte aree i prodotti dell'Occidente non sono insidiati dai manufatti asiatici, ma dalla concorrenza di altri Paesi industrializzati. Per restare a New York, scenda qui sotto, in Madison Avenue, e veda come funziona il sistema della moda. O pensi alla lotta tra Boeing e Airbus. Usa ed Europa. Dov'è la temutissima Asia? Eppure anche lì ci sono ristrutturazioni, tagli feroci, migliaia di persone che perdono il lavoro. Potrei citarle molti altri casi. Un bel problema per chi fa politica, ma gli elettori non potranno rifiutare ad oltranza la realtà. L'integrazione delle economie è già un dato di fatto: un processo innescato dalle tecnologie, più che dal Wto».

Larry Summers, economista e ministro del Tesoro di Bill Clinton, continua a sostenere che gli Usa devono competere e non ritirarsi, ma aggiunge che il dubbio di molti americani che la globalizzazione rappresenti per loro un onere e non un vantaggio è legittimo. Per ricreare consenso attorno ai processi di integrazione delle economie propone quindi interventi per ridurre diseguaglianze e insicurezza del lavoro, almeno negli Usa. Ad esempio, meno concorrenza fiscale tra i vari Paesi e condizioni di lavoro regolate da standard internazionali.
«È un terreno scivoloso. Certo, ci sono principi sui quali siamo tutti d'accordo: nessuno può far lavorare dei bambini 15 ore al giorno. Sono diritti civili universali. Ma su altre cose - orari di lavoro, salari, codici di sicurezza - non vedo come si possano creare standard planetari. Certo, abbiamo le regole ILO, l'agenzia dell'Onu per il lavoro. Ma sono pochi i Paesi che le hanno ratificate e del resto, più che di standard, si tratta di risoluzioni e principi non molto netti. Non è un caso: discriminazioni e diseguaglianze sul lavoro possono essere interpretate in modo diverso da un tribunale in Italia o in Gran Bretagna. Figuriamoci in Asia. Lei vede nel nostro futuro una Corte Suprema mondiale. Un ordine universale può essere un' aspirazione, ma non mi sembrano possibili obblighi uguali per tutti. Intendiamoci: i diritti dei lavoratori meritano di essere protetti. Io, tra l'altro, ho lavorato per Human Rights Watch. Ma proprio quell'esperienza mi ha insegnato che spesso di dice di voler aiutare i lavoratori di altri Paesi quando, in realtà, si ha solo l'obiettivo di ridurre la pressione della competizione internazionale. Pura ipocrisia: meglio parlare chiaro, difendere apertamente i propri interessi, che fingersi altruisti».

Allora che via d'uscita propone? Come si ricrea il consenso sulla globalizzazione? Serve un ruolo più attivo dello Stato nei Paesi industrializzati, come propone, in Italia, il neoministro dell'Economia Giulio Tremonti?
«Per me il ruolo dello Stato deve essere quello di adeguare i sistemi di protezione sociale di welfare, la scuola e la formazione professionale, a una realtà che cambia in fretta. Mica è tutto costo del lavoro: oggi le multinazionali decidono dove impiantare una nuova attività produttiva sulla base di vari fattori. Il lavoro c'è, ma non è sempre il più importante: contano le infrastrutture, il trattamento fiscale, l'energia, l'accesso alle materie prime. E poi, come le ho detto, l'incertezza del lavoratore sempre più spesso deriva da competizioni o crisi (come quella bancaria) tutte interne all'Occidente. L'ansia dei cittadini va curata soprattutto dando loro certezze per quanto riguarda la sanità e l'assistenza a chi perde il lavoro».

L'Europa ha la sanità universale, eppure la gente ha ugualmente paura.
«E' vero. C'è un problema di fragilità del lavoro. Va curato anche attraverso un sistema assicurativo che favorisca il passaggio da un impiego all'altro. Un tempo c'era il sistema sovietico basato su tante piccole nicchie iperspecializzate di lavori "a vita" che nessuno metteva mai in discussione. Oggi abbiamo, al contrario, bisogno di un sistema estremamente flessibile: molta formazione avanzata ma generale e specializzazioni che possono essere rinnovate con relativa facilità. Il radiologo che perde il lavoro perché le lastre si leggono in India deve poter diventare diabetologo o chirurgo plastico senza dover ricominciare tutto daccapo».

Massimo Gaggi
10 maggio 2008
Ace Ventura
00domenica 31 agosto 2008 15:54
Re: Re: Re: Re:
cointreau il possente, 23/12/2007 17.06:



che è un'enunciazione di fede più che un dato su cui discutere (nè dal quale partire per discutere).
Per fortuna, trapassato il buon Milton ed essendo molti dei suoi ferventi allievi e discepoli coinvolti in scandali di corruzione e ruberie in ogni parte del globo (gli ultimi ancora liberi siedono nell'amministrazione Bush), nonchè essendo ormai accolti a risate e calci nel sedere in quasi tutti i paesi in via di sviluppo (per assurdo solo noi occidentali ancora continuiamo nella liturgia della fede liberista, ma con sempre minor convinzione da parte del popolino, basta orecchiare due discorsi in qualsiasi bar d'Italia), credo che in capo a cinque anni non ci sarà nemmeno più bisogno di discutere tra supporter della globalizzazione a anti-globalizzatori. Anche perchè avremo ben altri problemini, lasciatici in eredità dall'ideologia di quel Darth Vader chiamato Milton Friedman.
Saluti.



Ah, ps. Dove è che spezzi oriente e occidente? Intendo come seguaci della liturgia liberista. E cosa intendi esattamente per liturgia liberista?
Mai sentito un simile attacco a Friedman. Quindi vuol dire che appartenere a un simile movimento vuol dire essere Anti-Friedman? Uhm no non me la bevo, ci sarà anche chi la pensa così, ma non ce li vedo tutti i no-global (definizione impropria) a protestare contro Friedman, calunniati dai mass media che li chiamano anti progresso. Antiprogressisti ce ne sono eccome, basta parlare con qualcuno di loro. Essendo all'università ne abbiamo dozzine, e detto sinceramente il tuo punto di vista è la prima volta che lo sento, quelli (e sono tanti) con cui ho avuto a che fare sono molto meno ragionatori te lo assicuro, e ahimè sono loro che costituiscono la spina dorsale di un movimento che ancora non si è ben capito cosa voglia. E ti assicuro che non sono pagati dai mass media.
cointreau il possente
00lunedì 1 settembre 2008 14:45
Re: Re: Re: Re: Re:
Ace Ventura, 31/08/2008 15.54:



Ah, ps. Dove è che spezzi oriente e occidente? Intendo come seguaci della liturgia liberista.



Non l'ho proprio capita, la domanda, ma tant'è.

Ace Ventura, 31/08/2008 15.54:


Mai sentito un simile attacco a Friedman. Quindi vuol dire che appartenere a un simile movimento vuol dire essere Anti-Friedman? Uhm no non me la bevo, ci sarà anche chi la pensa così, ma non ce li vedo tutti i no-global (definizione impropria) a protestare contro Friedman, calunniati dai mass media che li chiamano anti progresso. Antiprogressisti ce ne sono eccome, basta parlare con qualcuno di loro. Essendo all'università ne abbiamo dozzine, e detto sinceramente il tuo punto di vista è la prima volta che lo sento, quelli (e sono tanti) con cui ho avuto a che fare sono molto meno ragionatori te lo assicuro, e ahimè sono loro che costituiscono la spina dorsale di un movimento che ancora non si è ben capito cosa voglia. E ti assicuro che non sono pagati dai mass media.



Il movimento non esiste più. quel che tu conosci sono solo i rimasugli "fondamentalisti", privi di alcun valore, che ancora non se ne sono accorti.
Bye.


Ace Ventura
00lunedì 1 settembre 2008 15:59
- hai scritto che la società occidentale nn capisce i difetti del liberismo nel tuo precedente post, per esclusione vorrei sapere chi li capisce.

- Un movimento morto? non pare a giudicar da come parlano i suoi membri, se poi dici che è morto cerebralmente allora può anche essere. Mi puoi spiegare meglio la critica a Friedman? Non che io sia un suo sostenitore, anzi anche nelle università più arretrate si insegnano oramai le pecche dei suoi ragionamenti, ma sono curioso di sapere su quale fronte viene attaccato :)
cointreau il possente
00lunedì 1 settembre 2008 18:28
Re:
Ace Ventura, 01/09/2008 15.59:

- hai scritto che la società occidentale nn capisce i difetti del liberismo nel tuo precedente post, per esclusione vorrei sapere chi li capisce.



Non so bene cosa risponderti. Dato che somo passati uno-due anni dal post che citi. Forse l'avevo scritto con fare polemico verso kaname (probabile, mi piace sempre provocarla sull'argomento [SM=x751545] ), forse no. Francamente non lo so, non ho alcuna voglia di andarmi a rivedere tutta la discussione nonchè tutte quelle che probabilmente erano collegate a questa e fare un reset del cervello. Se hai voglia e pazienza, puoi andartele a cercare.

Ace Ventura, 01/09/2008 15.59:

- - Un movimento morto? non pare a giudicar da come parlano i suoi membri, se poi dici che è morto cerebralmente allora può anche essere. Mi puoi spiegare meglio la critica a Friedman? Non che io sia un suo sostenitore, anzi anche nelle università più arretrate si insegnano oramai le pecche dei suoi ragionamenti, ma sono curioso di sapere su quale fronte viene attaccato :)



Vale quanto detto sopra per la critica a Friedman: ne trovi ampi stralci in qua e là, in diversi thread. Ci sta anche che quel che ho scritto due anni fa non rispecchi più in toto il mio pensiero attuale.
In sostanza, sii più puntuale quando vuoi discutere. Non puoi riprendere thread di anni fa e sperare che chi c'ha scritto le riprenda come se fosse ieri.

Detto questo, ripeto: i membri del movimento, quel che ne è rimasto, non si rendono conto che il movimento è morto, o meglio, che è da anni che è iniziata la fase discendente e non si produce più nulla di nuovo a livello teorico.
Bye.


Ace Ventura
00lunedì 1 settembre 2008 19:41
cavolo ti chiedo scusa! mica l' avevo vista la data del post!!!! hahahahahah va vene chiuso!!! :D
Questa è la versione 'lo-fi' del Forum Per visualizzare la versione completa clicca qui
Tutti gli orari sono GMT+01:00. Adesso sono le 20:04.
Copyright © 2000-2024 FFZ srl - www.freeforumzone.com