Procedimenti giudiziari [modifica]
Riguardo al delitto Matteotti furono intentati tre procedimenti giudiziari.
Il procedimento principale si ebbe dal 16 marzo al 24 marzo 1926 a Chieti (ma istruito già fra 1925 e 1926), contro gli squadristi materialmente responsabili del rapimento e dell'omicidio: Amerigo Dumini, Albino Volpi, Giuseppe Viola, Augusto Malacria e Amleto Poveromo. Di questi, Dumini, Volpi e Poveromo furono condannati per omicidio preterintenzionale alla pena di anni 5, mesi 11 e giorni 20 di reclusione, nonché all'interdizione perpetua dai pubblici uffici, mentre per Panzeri, che non partecipò attivamente al rapimento, Malacria e Viola ci fu l'assoluzione. Il collegio di difesa degli imputati, a seguito di richiesta di Dumini, venne guidato da Roberto Farinacci, a quel tempo segretario nazionale del Partito Nazionale Fascista, l'enfasi che Farinacci mise nella difesa degli imputati fu tale da indurre Mussolini, che viceversa aveva chiesto invano un processo senza molto clamore, a costringerlo alle dimissioni dalla carica nazionale una settimana dopo la sentenza del processo.[10]
Già nel 1924 tuttavia era stato intentato un procedimento davanti dall'Alta Corte di Giustizia del Senato nei confronti dell'allora capo della Pubblica Sicurezza e della MVSN, il quadrumviro Emilio De Bono, per il quale fu ravvisato il non luogo a procedere.
Nel 1947, in seguito al Decreto Luogotenenziale del 27.7.1944 n.159 (che rendeva potenzialmente nulle le condanne avvenute in epoca fascista superiori ai tre anni), la Corte d'Assise di Roma reistituì il processo nei confronti di Giunta, Rossi, Dumini, Viola, Poveromo, Malacria, Filippelli, Panzeri. Dumini, Viola e Poveromo furono condannati all'ergastolo (poi commutato in 30 anni di carcere), mentre per gli altri imputati ravvisò il non luogo a procedere a causa dell'amnistia disposta dal Dpr 22.6.1946 n.4.
In nessuno dei tre processi venne mai accertata alcuna responsabilità diretta di Mussolini.[11]
Le accuse a Mussolini [modifica]
Fin dai primissimi momenti del sequestro e quindi ancor più dopo la scoperta che il rapimento era degenerato in omicidio, nella convinzione della pubblica opinione la responsabilità fu attribuita a Mussolini, come testimonia una canzonetta dell'epoca:
| « Or, se a ascoltar mi state, canto il delitto di quei galeotti che con gran rabbia vollero trucidare il deputato Giacomo Matteotti,
Erano tanti: Viola Rossi e Dumin, il capo della banda Benito Mussolin. » |
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Rimase anche famosa una vignetta del giornale satirico "il Becco Giallo" nella quale un truce Mussolini siede sulla bara di Matteotti.[13]
Alcuni squadristi, infuriati di essere stati usati come capri espiatori, avevano scritto vari memoriali nei quali asserivano che, quali che fossero le loro responsabilità per l'attività del gruppo di squadristi a cui veniva affidata l'esecuzione di rappresaglie e di vendette politiche[14], spesso chiamato Ceka, come la polizia politica sovietica, Mussolini aveva approvato e spesso ordinato direttamente i delitti perpetrati da quella organizzazione.[15]
Mussolini stesso, il giorno seguente al discorso del deputato socialista, scrisse sul "Popolo d'Italia" che la maggioranza era stata troppo paziente e che la mostruosa provocazione di Matteotti meritava qualcosa di più concreto di una risposta verbale.
Secondo una delle ricostruzioni, pare che il presidente del Consiglio, rientrato a palazzo Chigi dopo il famoso discorso del deputato socialista si sia rivolto a Giovanni Marinelli (capo della polizia segreta fascista) urlandogli: «Cosa fa questa Ceka? Cosa fa Dumini? Quell'uomo dopo quel discorso non dovrebbe più circolare...».[16] Questo sarebbe bastato a Marinelli per ordinare al suo sicario Dumini di uccidere Matteotti. Fu lo stesso Marinelli ad ammetterlo a Cianetti e Pareschi vent'anni più tardi quando si trovò con loro e gli altri firmatari dell'ordine del giorno Grandi nel carcere di Verona per essere processato.
Altre ricostruzioni della vicenda di Matteotti [modifica]
Carlo Silvestri — giornalista al tempo in forza al Corriere della Sera, di fede socialista e amico fraterno di Filippo Turati — fu uno fra i grandi accusatori di Benito Mussolini in rapporto al delitto Matteotti, ma successivamente, riavvicinatosi a Mussolini, durante la Repubblica Sociale Italiana (al punto da esserne definito come l'ultimo suo amico)[17] disse di aver accentuato le proprie accuse per fini di convenienza politica.[18] Silvestri ebbe infatti accesso privilegiato alle carte che Mussolini conservava circa l'omicidio dell'esponente socialista. Secondo quanto raccontato da Silvestri,[19] la visione della documentazione lo convinse dunque dell'estraneità di Mussolini al delitto.
| « Erroneamente, nel 1924, Mussolini era stato ritenuto il mandante dell'omicidio di Giacomo Matteotti (...) erroneamente era stato ritenuto che la causale del delitto fosse da ricercarsi nella lotta condotta dall'onorevole Matteotti contro il governo fascista. La soppressione di Matteotti fu voluta e decisa da esponenti di un putrido ambiente di finanza equivoca e di capitalismo corrotto e corruttore, cui il Governo era del tutto estraneo » |
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Secondo Renzo De Felice - in una ipotesi ripresa da Marcello Staglieno, Fabio Andriola, Matteo Matteotti e (con maggior prudenza) Guglielmo Salotti - le carte del dossier Matteotti, che sarebbero state gelosamente custodite da Mussolini e consultate da Silvestri - nonché inventariate fra quelle sequestrate a Dongo dai partigiani il 28 aprile 1945 - non sarebbero giunte mai a Roma, all'Archivio Centrale dello Stato cui sarebbero state destinate. De Felice, in Mussolini il fascista[20] afferma la consegna da parte della prefettura partigiana di Milano liberata dei fascicoli alle autorità centrali. Tuttavia di questi fascicoli, quelli di Matteotti e Cesare Rossi sono andati perduti, e ogni sforzo di De Felice di recuperarli presso gli Archivi o il ministero degli Interni è stato vano. Nell'ambito del suo lavoro sui carteggi sequestrati a Dongo dai partigiani, Andriola cita anche un'intervista rilasciata al rotocalco Epoca nel 1991 da Renzo De Felice secondo la quale tali carte sarebbero state forse fatte distruggere per ordine di Palmiro Togliatti.[21] Guglielmo Salotti - nella sua biografia di Nicola Bombacci - afferma che l'anziano rivoluzionario (in seguito avvicinatosi al fascismo), avrebbe passato molto tempo nella spasmodica ricerca delle prove dell'innocenza di Mussolini. Bombacci non fece mai nomi sui mandanti dell'omicidio, ma confidò a Silvestri che "purtroppo gli imputati non sono qui. Magari dopo essere stati manutengoli dei tedeschi saranno oggi al servizio degli inglesi o meglio ancora degli americani". Salotti ritiene invece del tutto "fantascientifica" la tesi secondo cui nell' affaire Matteotti sarebbero stati implicati i servizi segreti sovietici.[22]
La versione tradizionalmente accettata, per cui Matteotti sarebbe stato ucciso a causa del discorso di denuncia tenuto alla Camera, è stata recentemente messa in discussione anche dalle ricerche di Mauro Canali che fanno risalire direttamente a Mussolini l'ordine di assassinare il deputato socialista.[23] Secondo queste ricostruzioni il capo del fascismo intendeva impedire che Matteotti denunciasse alla Camera un grave caso di corruzione che avrebbe riguardato lo stesso Mussolini (oltre a diversi gerarchi fascisti ed esponenti dei Savoia), il quale, pochi mesi prima, avrebbe concesso alla società petrolifera americana Sinclair Oil (al tempo una controllata della Standard Oil), in cambio di tangenti, l'esclusiva per la ricerca e lo sfruttamento di tutti i giacimenti petroliferi presenti nel sottosuolo italiano e in quello delle colonie. In alternativa la Sinclair chiedeva di tenere nascosto agli italiani il ritrovamento di giacimenti in Libia, in modo che essi non entrassero in concorrenza con i propri. Difatti la presenza di giacimenti di petrolio (rivelatisi poi enormi) in Libia sarebbe stata rivelata pubblicamente dal governo solo nel 1939.[24] In realtà almeno la parte finale di questa ricostruzione è inverosimile in quanto l'ente petrolifero dello stato italiano AGIP (al tempo Azienda Generale Italiana Petroli), iniziò una campagna di ricerca di idrocarburi in Libia solamente nel 1938 non rinvenendo nulla nel periodo prebellico,[25][26] essendo necessarie tecniche sismiche esplorative non disponibili a quel tempo alla compagnia italiana.[27]
| « I familiari di Matteotti hanno sempre sospettato che mandante dell'omicidio fosse re Vittorio Emanuele, secondo loro proprietario di quote della Sinclair. Invece, io sono giunto alla conclusione che fu proprio Mussolini, che aveva intascato tangenti direttamente da questa operazione, a ordinare l'eliminazione del suo avversario politico. Il fatto che gli americani avessero individuato nella Ipsa la società con la quale Mussolini gestiva i profitti dell'estrazione del petrolio conferma un dato importante del consolidamento della sua posizione personale e del movimento fascista. » |
| (Mario Canali, intervista ad Oggi 2000 n° 51 di Gennaro De Stefano[28]) |
Secondo lo studio di Canali, il Fascismo avrebbe anche comprato il silenzio della vedova, Velia Matteotti, e dei figli Giancarlo e Matteo, i quali in effetti non accusarono mai Mussolini neppure dopo la sua uccisione e la caduta del regime nel 1945. A prova documentata di tale manovra del regime fascista, Canali utilizza un fascicolo proveniente dai fondi del regime fascista, e depositato in Archivio Centrale dello Stato, costituito di centinaia di documenti, in cui l'operazione di finanziamento della vedova, a fronte della sua comperata acquiescenza nei confronti del regime fascista, è puntualmente documentata. A fronte del versamento di alcuni milioni versati dalla polizia fascista in aiuto della vedova, in quel momento in una situazione finanziaria drammatica e a rischio bancarotta, quest'ultima s'impegnava a non espatriare e a interrompere tutti i rapporti con il mondo antifascista esule. L'ultima prova di ravvedimento che il regime volle da Velia fu che uno dei figli, che fino ad allora erano andati tutti e tre in scuole private, si iscrivesse e frequentasse una scuola pubblica. Cosa che puntualmente avvenne. La documentazione, compreso il resoconto di un incontro penoso tra Bocchini e Velia Matteotti, al quale la donna si presentò dimessa e vinta, è , come detto, nell'Archivio Centrale dello Stato.[senza fonte]
Dubbi su alcuni aspetti dello studio di Canali vengono espressi da Enrico Tiozzo, La giacca di Matteotti e il processo Pallavicini. Una rilettura critica del delitto, secondo il quale il ritrovamento degli indumenti di Matteotti - una delle prove chiave della tesi di Canali - sarebbe stato realmente casuale e non orchestrato.[29]
Secondo altre ricostruzioni[30], fermo restando il movente della denuncia delle tangenti Sinclair Oil - della quale (secondo Staglieno sulla base di una dichiarazione/intervista a lui rilasciata da Matteo Matteotti per "Storia illustrata", novembre 1985[31]), Vittorio Emanuele III era divenuto azionista - i mandanti dovrebbero essere cercati negli ambienti massonici filo-monarchici, direttamente minacciati più che Mussolini da uno scandalo di questo genere. Anche il figlio del deputato, Matteo, avallò nella suddetta intervista a Staglieno tali accuse al sovrano Vittorio Emanuele III. Assieme all'intervista, a sostegno di questa tesi di Matteo Matteotti, ci sono, consegnati da questi a Staglieno alcuni documenti: 1) un articolo di Giorgio Spini(Quel patto segreto con Sinclair, pp.58-59) inviato, in forma di lettera, nel gennaio 1978 a La Stampa ma mai pubblicato: esso commentava un articolo di Giancarlo Fusco ( su Stampa Sera, Torino, 2 gennaio 1978), con circostanziate accuse a Vittorio Emanuele III quale principale mandante del delitto; 2) un articolo di Carlo Rossini (Il delitto Matteotti e la pista economico-finanziaria. Il caso è ancora aperto, p.60), autore del fondamentale saggio Il delitto Matteotti fra il Viminale e l’Aventino, Bologna, Il Mulino, 1968); una breve intervista (siglata p.g.) a Franco Scalzo (Intrigo internazionale, pp.59-60), autore del saggio Matteotti. L’altra verità, Milano, Savelli, 1985. Su consiglio dell’editore Rusconi jr, Matteo Matteotti ( ma poi se ne pentì) evitò di pubblicare in Appendice al proprio volume ( Matteo Matteotti, Quei vent’anni. Dal fascismo all’Italia che cambia, Milano, Rusconi, 1985) sia l’articolo di Giancarlo Fusco, sia quello di Spini. Sostanzialmente, le affermazioni di Matteo Matteotti smentiscono quelle di Mauro Canali che sostiene che il Fascismo avrebbe comprato il silenzio della vedova e dei figli di Matteotti. Il fatto che tutti loro, come ipotizza Canali, non accusarono mai Mussolini neppure dopo la sua uccisione e la caduta del regime nel 1945, non sarebbe sinonimo della colpevolezza di lui, ma al contrario, dimostrerebbe che l’intera famiglia Matteotti, che pure fu aiutata economicamente da Mussolini, non credette mai che fosse stato il mandante del delitto. Si rileva inoltre che – a parte le comprensibili violentissime accuse a Mussolini da parte delle opposizioni – le più alte personalità del Parlamento, a partire da Giovanni Giolitti a Luigi Einaudi a Benedetto Croce, mai ritennero Mussolini quale mandante. Subito dopo un discorso di Mussolini (26 giugno 1926) alla Camera fu anzi lo stesso senatore Croce, a Palazzo Madama [32], a favore del governo Mussolini a farsi promotore di un ordine del giorno [33]prudente e patriottico» [34], quel voto. e, una volta che esso fu approvato attraverso il voto, definì «
Mussolini ebbe a dire del rapimento e poi del delitto che era «una bufera che mi hanno scatenato contro proprio quelli che avrebbero dovuto evitarla» (alla sorella Edvige)[35] in chiaro riferimento ad alcuni suoi collaboratori (De Bono, Marinelli, Finzi e Rossi, quasi tutti legati alla massoneria).[36] In un'altra occasione ebbe a definire il delitto «un cadavere gettato davanti ai miei piedi per farmi inciampare».[37] Nel discorso alla Camera del 13 giugno Mussolini aveva gridato:
| « Solo un nemico che da lunghe notti avesse pensato a qualcosa di diabolico contro di me, poteva effettuare questo delitto che ci percuote di orrore e ci strappa grida di indignazione. » |
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Al di là del mandante diretto, una tra le interpretazioni accreditate in ambito storiografico è che fra le motivazioni del rapimento o comunque fra gli strascichi del delitto vi fosse il tentativo degli estremisti fascisti di colpire direttamente Mussolini e la sua politica di apertura a sinistra e di parziale legalità parlamentare, impedendogli un riavvicinamento con i sindacalisti di sinistra (Mussolini aveva appena chiesto ad Alceste De Ambris[38] di assumere incarichi di governo, ottenendone rifiuto) e perfino coi socialisti e la Confederazione Generale del Lavoro (CGL).[39]
De Felice, infatti, dedica numerose pagine alle aperture mussoliniane verso sinistra prima e dopo le contestate elezioni del 1924, e bruscamente interrotte dal delitto Matteotti. In particolare al discorso parlamentare del 7 giugno 1924 (tre giorni prima del rapimento di Matteotti), nel quale lo storico individua fra le righe l'offerta "ai confederali di entrare nel governo".[40] De Felice prosegue anche nel notare che erano proprio i socialisti più intransigenti (Matteotti, Turati, Kuliscioff etc.) i più preoccupati (oltre, ovviamente, all'ala destra del fascismo) da questo possibile "spostamento a sinistra" di Mussolini.[41]
Tuttavia, quanto alla non intenzionalità del delitto, il figlio Matteo Matteotti nella suddetta intervista (su "Storia Illustrata") a Staglieno sostenne il contrario. Affermando cioè che il fatto che i rapitori non avessero con sé né una pala né un piccone per seppellire il corpo una volta consumato il delitto, non bastava a provare che esso non fu premeditato. A sapere che Matteotti doveva essere ucciso, sempre secondo Matteo Matteotti, erano Dumini e Poveromo. Ad assassinare il padre, precisò a Staglieno lo stesso Matteo, furono ripetuti colpi di lima vibrati da Poveromo (dichiarò lo stesso Matteo Matteotti in tale intervista;" Me lo confessò, piangente e pentito, Poveromo in persona nel carcere di Parma dov'ero andato a trovarlo nel gennaio 1951, poco prima della morte di lui") Il quale Poveromo, dopo aver chiesto a Dumini, che era al volante dell’auto, di uscire da Roma, con i suoi complici seppellì sommariamente il cadavere nel bosco della Quartarella (dove il 16 agosto verrà ritrovato da un brigadiere dei carabinieri) presso la via Flaminia, a 23 chilometri dalla città. Fu,volontariamente, un seppellimento sommario: nell’auto non c’erano per l’appunto né una pala né una zappa perché (secondo Matteo Matteotti questo lo sapevano a priori soltanto Dumini e Poveromo), nel caso d’un loro arresto, l’assassinio doveva apparire preterintenzionale. Al pari degli altri imputati Dumini confermò nel processo, mentendo, questa tesi, già sostenuta nell’istruttoria iniziata a Roma il 14 giugno 1924.Sempre mentendo, sostenne che lo stesso sequestro – sulla base di quanto suggeritogli da De Bono al momento dell’arresto, quindi dal difensore, Roberto Farinacci - non era stato premeditato. Disse che il gruppo, in giro per Roma, incontrato casualmente il deputato socialista, aveva deciso, all’istante, di punirlo per la sua attività antifascista, ovvero per stabilire se fosse in contatto con elementi di sinistra francesi responsabili, nel loro Paese, dell’assassinio di fascisti (Gino Jeri, Nicola Bonservizi): ma senza l’intenzione di ucciderlo. Nulla disse della borsa di Matteotti (quella con dentro i documenti sul rapporti tra il sovrano e la petrolifera Sinclair) che, al momento dell’arresto, gli venne sequestrata, pervenendo poi a De Bono(che l’avrebbe consegnata a Mussolini nel vano tentativo di sfuggire alla condanna a morte nel Processo di Verona:borsa che poi Mussolini portò con sé a Dongo e che, come sopra spiegato da De Felice, sparì con i documenti contro il Vittorio Emanuele III già sottratti a Matteotti).[senza fonte]
A conferma del delitto volontario, è utile ricordare due elementi importanti. La confessione dello stesso Dumini, che in un testamento scritto nel 1933, quando temeva di essere fatto fuori dal regime, aveva scritto e fatto pervenire a uno studio di avvocati americani con l'ordine di renderlo pubblico in caso di una sua uccisione, Dumini, l'assassino di Matteotti, ammette di avere ricevuto l'ordine di uccidere Matteotti, poiché nei vertici del fascismo si temeva che il deputato socialista nel discorso annunciato per l'11 giugno in Parlamento avrebbe denunciato la corruzione della convenzione Sinclair, in cui, dichiara Dumini nel documento, era coinvolto Arnaldo Mussolini, il fratello del Duce. L'altro elemento sulla intenzionalità del delitto, consiste nel fatto che la squadra che rapì e uccise Matteotti (Dumini, Volpi, Poveromo e gli altri), giunsero a Roma il 21 maggio, come provano gli atti istruttori depositati all'Archivio di Stato di Roma, e si misero subito a pedinare Matteotti. L'organizzazione del delitto quindi venne avviata molti giorni prima del discorso di Matteotti alla Camera che avvenne il 30 maggio.[senza fonte]
Il discorso di Mussolini [modifica]
Circa sei mesi dopo la morte di Matteotti, Mussolini, in un noto discorso tenuto alla Camera il 3 gennaio 1925, respinse ogni accusa di un suo coinvolgimento nel delitto Matteotti, sfidando anzi i Deputati a tradurlo davanti alla Suprema Corte in forza dell'articolo 47 dello Statuto Albertino.[42] Nel discorso, articolato con varie argomentazioni e con frasi dalla possibile duplice interpretazione Mussolini iniziò rigettando ogni addebito sulla creazione di una "Ceka" e accusò le opposizioni e i giornali d'aver speculato sui fatti precedenti le elezioni e sul caso Matteotti. Quindi con un improvviso cambio di tono, minacciò le opposizioni di scatenare il fascismo "finora tenuto compresso", le accusò di fomentare la violenza politica, assumendosi personalmente, in due vicini passaggi del suo discorso, la responsabilità sia dei fatti avvenuti (tuttavia senza specificarli) e sia di aver creato il clima di violenza in cui tutti i delitti politici compiuti in quegli anni, erano maturati, trovando anche parole per riaffermare,di fronte ad alleati ed avversari, la sua posizione di capo indiscusso del fascismo:
| « Ma poi, o signori, quali farfalle andiamo a cercare sotto l'arco di Tito? Ebbene, dichiaro qui, al cospetto di questa Assemblea e al cospetto di tutto il popolo italiano, che io assumo, io solo, la responsabilità politica, morale, storica di tutto quanto è avvenuto. Se le frasi più o meno storpiate bastano per impiccare un uomo, fuori il palo e fuori la corda! Se il fascismo non è stato che olio di ricino e manganello, e non invece una passione superba della migliore gioventù italiana, a me la colpa! Se il fascismo è stato un'associazione a delinquere, io sono il capo di questa associazione a delinquere!
Se tutte le violenze sono state il risultato di un determinato clima storico, politico e morale, ebbene a me la responsabilità di questo, perché questo clima storico, politico e morale io l'ho creato con una propaganda che va dall'intervento ad oggi. » |
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Infine Mussolini denunciò l'Aventino come sedizioso e concluse con una dichiarazione, minacciosa verso l'opposizione, affermando che all'Italia che chiedeva tranquillità:
| « Noi, questa tranquillità, questa calma laboriosa gliela daremo con l'amore, se è possibile, e con la forza, se sarà necessario. State certi che entro quarantott'ore la situazione sarà chiarita su tutta l'area. » |
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Alcuni deputati giolittiani volevano presentare una mozione di sfiducia nei confronti del governo ma, sentendosi isolati, la ritirarono.
Nella notte l'on Federzoni, ministro dell'Interno, inviò ai prefetti due telegrammi riservati che traducevano in pratica i propositi autoritari di Mussolini. Le disposizioni invitavano, in particolare, le autorità ad esercitare la sorveglianza più vigile su circoli, associazioni, esercizi pubblici che potessero costituire pericolo per l'ordine pubblico e, se del caso, ad attuarne la chiusura forzata. Le autorità erano altresì autorizzate ad avvalersi senza scrupoli del fermo temporaneo nei confronti degli oppositori politici. Inoltre i prefetti venivano invitati ad applicare con rigore assoluto il decreto legge atto a "reprimere gli abusi della stampa periodica", approvato durante il Consiglio dei ministri del 7 luglio 1924, ma fino a questo momento usato quasi esclusivamente nei confronti della stampa di ispirazione comunista. Il decreto conferiva ai prefetti, ossia al governo, il potere di diffidare o addirittura sequestrare, il giornale che diffondesse "notizie false e tendenziose atte a turbare l'ordine pubblico". Una successiva circolare interpretativa del ministro Federzoni aveva subito sgombrato il campo dagli equivoci: il giornale poteva essere sequestrato anche se la notizia pubblicata si fosse rivelata vera. Era evidente, pertanto, lo scopo illiberale e dittatorio che il provvedimento doveva raggiungere: l'annientamento, grazie ai continui sequestri, di tutta la stampa d'opposizione.
Nell'arco di una settimana il Ministro dell'Interno poté illustrare in sede di Consiglio dei ministri i risultati raggiunti dai provvedimenti adottati nella notte fra il 3 ed il 4 gennaio: i prefetti si avvalevano senza esitazione dei poteri che gli erano stati attribuiti, centinaia di persone erano state arrestate. Lunga era anche la lista di locali ed associazioni che erano stati chiusi usando qualsiasi pretesto.
Il 14 gennaio la Camera approvò in blocco e senza discussione migliaia di decreti legge emanati dal governo: la dittatura era iniziata.
Il discorso di Mussolini costituì un atto di forza, con cui convenzionalmente si fa iniziare la fase dittatoriale del fascismo.[43]