Oro afghano

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vanni-merlin
00sabato 7 luglio 2007 10:09
Oro afghano

A Torino il Museo di antichità presenta "I tesori ritrovati. Le collezioni del museo nazionale di Kabul", che racconta la storia artistica di questa martoriata nazione



Torino - Bisogna arrampicarsi fino all'età del Bronzo, al 2000-2100 avanti Cristo, o al III secolo avanti Cristo o al I dopo, per avere buone notizie dell'Afghanistan, terra martoriata e disputata. Grazie a questa mostra aperta a Torino, al Museo di antichità, fino al 23 settembre e che porta in Italia "I tesori ritrovati. Le collezioni del museo nazionale di Kabul". Torino è l'unica tappa italiana della mostra grazie alla Fondazione per l'arte della Compagnia di San Paolo. La mostra, progettata dal Musée national des arts asiatique-Guimet, ha esordito a Parigi e andrà poi ad Amsterdam, Bonn e negli Stati Uniti.
Tesori ritrovati, tesori miracolati, fatti uscire dai caveau di banche, sopravvissuti a "fenomeni più grandi degli uomini" che hanno inizio con il colpo di Stato in Afghanistan dell'aprile 1978. Fenomeni le cui conseguenze in fatto di distruzioni, furti, dispersioni non sono ancora del tutto chiare (sia in Afghanistan sia in Occidente) nè superate. In occasione della mostra, vengono ricostruite in dettaglio dal direttore del museo Omar Khan Masudi che attribuisce molte delle responsabilità dei disastri "all'esterno delle frontiere" dell'Afghanistan.
Nel '79 scatta il primo trasferimento "irresponsabile" delle opere del Museo nazionale nella dimora di un ministro e il museo diventa una struttura del ministero della Difesa, in parole povere una base militare. In uno di questi traslochi va in frantumi il vaso di vetro che raffigura il faro di Alessandria, di valore eccezionale perché "risulta essere una delle testimonianze più antiche, se non la più antica (monete a parte), del monumento edificato nel 285 avanti Cristo" ed anche sembra essere "il modello più fedele". Il vaso è stato poi ricomposto e restaurato in Francia.
L'invasione sovietica provoca una "situazione di guerra" ("due milioni di vittime, distrutte tutte le strutture economiche, destabilizzate quelle culturali") in cui uno dei musei più belli del Paese, quello di Hadda, a circa otto chilometri ad Est di Jalalabad, frutto degli scavi autonomi degli archeologi afghani, viene incendiato e completamente saccheggiato, compresi i depositi di Jalalabad "straboccanti" di opere. Questo avvenimento drammatico e irreparabile spinge al trasferimento di parte dei materiali del Museo nazionale nei caveau della banca centrale d'Afghanistan e in altri luoghi seguendo la regola della disseminazione. Incredibilmente questi trasferimenti sono stati mantenuti segreti nonostante "molte voci al riguardo di queste opere, voci di furto, di vendita sul mercato nero e persino di una loro fusione".
Nel dicembre '92 una grande scultura e un bassorilievo entrambi del II-III secolo dopo Cristo, vengono rubate da un ingresso del Museo nazionale. Tutte e due sono state recuperate, una in Giappone. Secondo Pierre Cambon, conservatore capo della sezione Pakistan-Afghanistan del museo Guimet (e curatore della mostra di Torino), sempre in Giappone si troverebbe gran parte degli oggetti del "tesoro" di Mir Zakah, una delle più recenti scoperte archeologiche.
Pochi giorni dopo la sparizione delle due sculture, uno dei grandi depositi del museo è violato per un "furto considerevole". Nel marzo '94 il museo-base militare viene incendiato da razzi. In novembre, durante la visita del rappresentante speciale del segretario generale dell'Onu, si constata che "moltissime delle opere del Museo nazionale erano state selvaggiamente sottratte". Fra cui una collezione di più di quarantamila monete di varie epoche e i più bei tappeti afghani. Parte degli oggetti conservati nelle vetrine sono "scomparsi nelle fiamme".
L'Onu si muove e riesce a rendere ermetici i depositi, a dotarli di porte metalliche, e i tetti di coperture adatte, ma nel rigidissimo inverno del '94 i tetti prendono fuoco e crollano. Circa tremila opere in terracotta, pietra e metallo, danneggiate sono state recuperate. Coinvolti nell'incendio e "interamene bruciati" alcuni affreschi in due sale importanti del museo.
Nel '96, una settimana prima dell'arrivo dei talebani, oltre 3.500 opere vengono trasferite all'Hotel Kabul in centro città, dopo averle catalogate su supporti informatici, fotografate, lavorando in condizioni impossibili. I talebani trascurano l'Hotel Kabul, ma depredano i depositi con "furti considerevoli". Ancora nulla a confronto di quanto accade all'inizio del 2001 quando i talebani formano un gruppo particolare, specializzato nella distruzione delle opere d'arte del Museo nazionale: "più di duemilacinquecento opere sono così annientate". Da ricordare che in marzo sono stati fatti saltare i due Buddha nella valle di Bamian, alti 38 e 55 metri. Ai loro piedi sono passate le armate di Gengis Khan.
In un complotto per "annientare la cultura" (impossibile escluderlo, impossibile escludere mani straniere, ribadisce Masudi), i talebani, in ogni parte del Paese, scavano, rubano "su larga scala", distruggono luoghi sacri, mete di pellegrinaggio.
Finalmente, nel 2003, l'edificio del Museo nazionale viene ricostruito. I sigilli delle casse nei caveau della Banca centrale, con i materiali di Tillia Tepe, la "collina d'oro" con le tombe del I secolo dopo Cristo, forse lo scavo più celebre dell'archeologia afgana (abbondantemente rappresentato in mostra), e di altre importanti collezioni, sono intatti. Le casse contengono in tutto 22.607 oggetti catalogati, di cui 20.587 delle tombe di Tillia Tepe in oro, argento, avorio. Al controllo mancano 1.031 oggetti di Tillia Tepe, allora non trasferiti nei caveau e che vengono considerati scomparsi, rubati.
Grazie ad un accordo con l'American National Geographic Society, nel 2004 è iniziato nei caveau l'inventario delle opere con la redazione di una scheda in lingua locale e in inglese. Oggi gli esperti internazionali e il personale del museo (archeologi formati anche in Italia), stanno restaurando e pulendo le opere.
L'originalità e la complessità di questi "tesori" in mostra ci vengono ricordati da Marina Sapelli Ragni, soprintendente per i beni archeologici del Piemonte e del Museo egizio, osservando che la "posizione geografica dell'Afghanistan ha fatto di questa regione un luogo di passaggio in ogni epoca storica; non solo per migrazioni e invasioni, ma anche per pellegrini, mercanti e carovane questa è stata la strada classica percorsa da chi voleva recarsi dall'Iran all'India", alla Cina. Fu "attraverso gli achemenidi, Alessandro Magno e i seleucidi, i parti e poi i principi kushani, sotto la sovranità dei sasanidi, seguiti dagli unni e poi dagli arabi, dal VI secolo a. C. all'VIII secolo d. C., che questa regione ha vissuto i tanti conflitti, ma anche e soprattutto gli incontri di civiltà e i vivaci scambi interculturali". Qui sono arrivati lacche cinesi, avori indiani, vetri siriaci e alessandrini, bronzi romani, eccetera. Qui "paganesimo ellenistico e buddhismo, con le rispettive credenze religiose e artistiche, hanno dato vita ad un'arte greco-buddhista, poi soppiantata da un'arte irano-buddhista e kushano-sasanide e, da ultimo, dalla cultura arabo-islamica".
Quella di Torino è una mostra di oggetti (oltre 220) di piccole dimensioni, al massimo elementi architettonici come capitelli, statuine e bronzetti, vetri, ma di una qualità sfolgorante da gustare nei particolari, per fattura, profusione di oro e pietre, fantasia di materiali preziosi in corone, ornamenti vari (anche in forma di virgole singole e composte), spille, bracciali, cinture, fibbie da calzature, copricapo a forma di albero e suole, proprio suole, in una sottile foglia d'oro, buone solo per marciare nell'aldilà. Amuleti in mille forme. Rivestimenti in bronzo e oro di foderi di armi con croci uncinate che sono un tipico motivo indiano del I secolo dopo Cristo. Ancora più affascinanti le storie che sono dietro a questi oggetti, ai quattro scavi da cui provengono e dove li ha scelti il curatore (catalogo Umberto Allemandi). Per conoscerle basta seguire Pierre Cambon.
Il primo è Tepe Fullol, al Nord, che rimanda alla preistoria, all'età del Bronzo (2000 avanti Cristo). Fa parte della civiltà cosiddetta della Battriana, l'antica regione al confine con Uzbekistan e Tagikistan, punto di incontro fra l'ellenismo e le culture iranica e indiana. Qui, in una stretta gola, nel 1966 alcuni contadini si ritrovarono fra le mani dei vasi o coppe d'oro e d'argento che non sapendo come dividere fecero a pezzi a colpi di accetta. Cinque coppe d'oro e sette d'argento più dei frammenti furono recuperate con prontezza e portate al Museo nazionale di Kabul, ma delle coppe d'oro sono state finora rintracciate solo tre e nessuna di quelle d'argento. Le ultime informazioni fanno sperare che una coppa d' argento sia in un ministero di Kabul mentre un'altra sarebbe comparsa sul mercato antiquario di Londra.
Le tre coppe d'oro sono tutte in mostra, con le ferite della divisione brutale, ma dall'estetica "raffinata". Hanno altezze e diametri di 10-15 centimetri e sono decorate a motivi geometrici, con cinghiali, alberi e montagne e tori barbuti, ottenute con incisione, martellatura e lavorazione a sbalzo. Sottolineano "il ruolo cruciale svolto dalla Battriana negli scambi fra il Vicino Oiente, il Belucistan e la civiltà dell'Indo.
Il secondo sito, Ai Khanum, ancora più a Nord, alle porte delle steppe, è forse l'"Alessandria Oxiana" forse fondata nel 330 avanti Cristo da Alessandro, in ogni caso una città reale, la più orientale punta di avanzamento dell'ellenismo nel cuore dell'Asia centrale. Nota Cambon: "Se i conquistatori greci si arrestarono là dove si erano già fermati i persiani, la loro presenza in Asia centrale, all'origine di un regno particolarmente florido, sarà determinante per l'evoluzione dell'arte e della storia a Sud della catena montuosa dell'Hindukush".

Alcuni oggetti di Ai Khanum in mostra "denotano la purezza della tradizione ellenica". La decorazione architettonica degli edifici con capitelli corinzi e antefisse alate o a palmetta, l'anatomia delle statuette rimandano ai capolavori della Grecia classica e il modello urbanistico riproduce quello della città greco-classica, con i muri costruiti in mattoni cotti e rivestiti di pietra (i tetti erano esattamente all'orientale, a pendenza unica e non a doppia pendenza, in terra su ramaglia e stuoie, con un rivestimento alla greca di tegole piatte). Così il minuscolo volto di giovane (altezza 21 centimetri) in argilla cruda; il bronzetto di Eracle; l'erma in calcare alta 77 centimetri, un "ritratto sensibile" di vecchio barbuto, maestro nel ginnasio, avvolto in un ampio e spesso mantello;
il doccione di una fontana a forma di maschera comica, in calcare biancastro. Dalla necropoli di Ai Khanum proviene una stele funeraria con efebo, in calcare biancastro, alta 57 centimetri. Già abbondantemente mutilata è stata resa "quasi irriconoscibile" dai talebani.
Altri oggetti esprimono la "simbiosi con tradizioni più orientali" come la placca circolare proveniente dal tempio, con Cibele, la dea greca della natura selvaggia, in piedi con accanto una vittoria alata, su di un carro trainato da due leoni, in argento quasi completamente de-mineralizzato, lavorato a sbalzo e ricoperto con foglia d'oro. Esempio di un'arte ibrida greco-orientale in particolare per l'iconografia. I lingotti d'oro "richiamano la ricchezza dei condottieri greci e la loro inclinazione a coniare monete".
Ma i quattro lingotti in mostra (poco più di otto etti d'oro) sono in realtà ammassi irregolari ottenuti dalla fusione di oggetti già lavorati e sono stati scoperti, con altri di poco meno di 13 chilogrammi d'oro, nascosti nel pavimento di una stanza della tesoreria reale. Ci richiamano così alla brutale fine di Ai Khanum greca che si consumò in cinque anni, a cominciare dal 145 avanti Cristo, ad opera di una doppia invasione di nomadi. Il palazzo fu incendiato, saccheggiata la tesoreria, la città smontata da popolazioni locali che si impadronirono di tutti i materiali da costruzione. Una seconda ondata di nomadi fece il resto bruciando il tempio che era stato trasformato in magazzino.
Il terzo sito è la "collina d'oro" di Tillia Tepe, scoperta nel 1978 da una missione sovietico-afgana diretta da Viktor I. Sarianidi, che era alla ricerca di tutt'altro. E fu ancora il caso che la pala di un manovale che rimuoveva la terra e l'argilla di un tumulo incocciò nell'oro. Siamo ancora a Nord, a poca distanza dal confine col Turkménistan, in una regione desertica ai limiti delle steppe, sempre all'interno dell'antica Battriana. Con Tillia Tepe - afferma Pierre Cambon - "la componente delle steppe faceva il suo ingresso nella storia" e svelava "un mondo nomade molto più raffinato, eclettico ed ellenizzato" di quanto si immaginasse.

"Collina d'oro", nulla di esagerato, con 21.618 oggetti di grandissima magnificenza e varietà, di un "carattere raffinato e sontuoso", fra gioiellli, ornamenti, armi, indumenti in oro, argento, avorio, perle, pietre semipreziose in una vastissima congerie di animali fantastici cari all'arte delle steppe, insieme a pezzi romani, partici e greci.
Continuiamo a seguire Pierre Cambon. Sono sei tombe non violate "la cui disposizione appare di un'estrema semplicità pur non mancando di grandezza: una fossa rettangolare di due metri per uno e mezzo, a due metri di profondità, al centro della quale si erge, leggermente sopraelevata per mezzo di piedi, una bara rettangolare in legno aperta e avvolta in un telo". Le bare sono fatte di travi prive del tutto di chiodi e ganci metallici ed una scavata in un tronco di legno massiccio. Sui teli, sui drappi forse in diversi strati, erano cuciti gli ornamenti in oro e argento, in un campionario vastissimo.
Gli ospiti delle tombe sono un principe guerriero di circa trent'anni, certamente un capo, e cinque donne, fra cui principesse, una molto giovane perché "non aveva ancora partorito". Gli abiti sono cuciti d'oro e ornati di bracciali decorati di pietre semipreziose, turchesi, granati e lapislazzuli. Il principe ha le armi di parata riccamente decorate (pugnali, foderi, cintura in oro intrecciato) ed ha la testa posata su di una coppa in oro con iscrizioni in caratteri greci sulla quale erano fissati un alberello in oro e l'immagine di uno stambecco, quel che rimane probabile di un copricapo da parata. Sopra la tomba sono stati trovati un cranio e alcune ossa delle zampe anteriori di un cavallo, probabilmente sacrificato "e forse impalato sulla tomba affinché restasse di guardia e a disposizione del suo cavaliere".
Sotto il mantello tre donne portano sul petto uno specchio cinese (circa I secolo avanti Cristo). Una ha un berretto, forse scita, ornato dal pendente del "signore degli animali". Una principessa ha ancora sul cranio una corona d'oro con decorazione di fiori e uccelli, e nella bocca chiusa una moneta d'argento (che ricorda il pagamento al traghetto dello Stige, il fiume degli Inferi). Due donne tengono nel palmo della mano una moneta d'epoca partica col re Mitridate II (I secolo avanti Cristo). Viceversa una moneta d'oro con testa di Tiberio e sul rovescio Livia, madre dell'imperatore e sposa di Augusto, appartiene al I secolo dopo Cristo, battuta nelle Gallie nel 14-37.
Una giovane donna, fra i venti e i trent'anni, aveva un piccolo portacipria rotondo in avorio con i resti di una sostanza in polvere. C'erano anche i resti di un cesto intrecciato con resti di trucco bianco e rosa vivo, di una sostanza nera forse per le guance e gli occhi, e diversi strumenti per la cura personale come piccoli contenitori preziosi, spatole e pinzette in ferro, un bastoncino in osso.
Granati e pettine confermano la connessione con l'India. L'intaglio di un grifone in calcedonio è una forma d'arte che si estende in tutta l'Eurasia e l'animale fantastico evoca il mondo greco e quello iraniano. L'abbigliamento delle donne è quello ancora oggi molto diffuso in questa regione vale a dire la tunica sui pantaloni.
Naturalmente vengono dalle tombe della "collina d'oro" gli oggetti più straordinari della mostra. Veri "tappeti" preziosi a dominante gialla dell'oro puntinati dal turchese, formati da ornamenti (rotondi, a triangoli, nodi, maschere, teste stilizzate di ariete o di muflone dall'occhio di cornalina, cuori e soprattutto virgole in mille combinazioni).

Ornamenti per capelli e copricapo che sono anche capolavori di "architettura" sonora, costruzioni alte più di 12 centimetri che suonano grazie a catenelle e a pendenti fatti di piccoli dischi d'oro, ancora turchesi, granati almadini, lapislazzuli, cornaline e perle. Come una coppia di pendenti di copricapo in feltro e cuoio, con un personaggio centrale vestito come i nomadi, che tiene a bada due animali fantastici dalla cresta formata da virgole di turchese, e definito il "signore dei draghi". Una collana si presenta con grosse perle d'oro e strane perle nere del diametro sui due centimetri. Le prime sono formate da due cupole emisferiche saldate, le seconde da due emisferi di legno o di avorio dipinto di nero.
Dalla tomba del capo provengono armi particolarmente fastose, come rivestimenti di foderi di un pugnale dal manico di avorio e di una corta spada con scene di combattimenti fra animali o di dragoni, in oro, turchese, bronzo e pasta di vetro (un tempo di blu vivo). Il fodero del pugnale è un concentrato di influssi nella "collina d'oro": astuccio di tradizione nomade, corna di cervo e draghi alla cinese, tipico motivo indiano della croce uncinata, virgole secondo la tradizione achemenide, modellato greco.
Sontuosa la cintura d'oro lunga quasi un metro con nove medaglioni in forte rilievo che raffigurano un personaggio, forse Dioniso, in groppa ad una pantera, studiati in modo che gli animali convergano verso destra e verso sinistra nelle fibbie che si agganciano. I medaglioni sono collegati da una banda di otto catene d'oro intrecciate. Il copricapo del principe aveva come figura di punta un muflone in oro alto un po' più di cinque centimetri, di tradizione certamente nomade, ma reso con una "modalità realistica" (zampe tese, zoccoli e ungule precise, modellato accurato del muso, barbetta, pelame, sesso) che ci porta "distante dall'arte delle steppe". Col muflone, ad impreziosire il copricapo doveva esserci un "Albero della vita", sempre in oro, alto nove centimetri, e formato da fili-rami che sorreggono perle e dischi. Come giaciglio della testa così apparecchiata il principe aveva una scodella rituale, una "phiale" del diametro di 23 centimetri con 32 scanalature, anche lei in oro. Per i comuni mortali questo tipo di guanciale era di legno.
Nella tomba di una giovane donna di una ventina d'anni, la corona in foglia d'oro, semplicissima e pure ricchissima formata da cinque "alberi" con in cima uccelli, rose a sei petali da cui pendono dischetti, è accompagnata da una notizia per noi agghiacciante. Secondo una pratica documentata fra le classi aristocratiche dell'Asia centrale, il cranio della giovane "aveva subito una deformazione volontaria".
Riprendiamoci con i tesori dell'ultimo scavo in mostra, quelli di Begram, a pochi chilometri a Nord di Kabul. Individuata nel 1937 fra le rovine di Kapisa, considerata l'Alessandria del Caucaso, sede dei re kushani al loro apogeo, residenza estiva dell'imperatore Kanishka, si trova ora da una parte meglio salvaguardata e dall'altra maggiormente a rischio perché compresa in un aeroporto militare.
Stipato in due camere nel palazzo dell'imperatore è stato scoperto un tesoro dal materiale eclettico, India, Cina, Grecia e Roma, che al di là della qualità, ha un fascino incomparabile, quello del mistero, "sconcerta per la sua ricchezza e per il suo palese rimanere senza spiegazioni". Due camere murate, sigillate, in cui i bronzi sono con i bronzi, gli avori con gli avori, i vetri con i vetri ( e fra i vetri, quelli dipinti da una parte e quelli sfaccettati dall'altra). E allora di che cosa si tratta? Un tesoro nascosto per essere difeso o "una giacenza, una riserva, un magazzino di tipo commerciale" o "un deposito votivo creato dalle carovane"? E di quale datazione? Fra il I e il II secolo dopo Cristo mentre alcuni propongono per gli avori e i vetri il III secolo e addirittura il IV con alcune imbarazzanti, cioè più interessanti, eccezioni avanti Cristo.

Spiccano i vetri (restaurati a Parigi), con gli esemplari più antichi del mondo greco-romano: vasi blu, flaconi a forma di pesci, in vetro soffiato, e soprattutto tre bicchieri (due alti circa 25 centimetri), con decorazione dipinta con scene di caccia e il combattimento Achille-Ettore, tracciate con una pittura veloce, sintetica, padrona del movimento che per il "gioco coloristico" evoca i moderni espressionisti. Gli avori indiani di "stili spesso molto lontani fra loro": trenta fra placche anche di grandi dimensioni, con decorazione a rilievo o traforata e incisa, elementi di cofanetto e di mobili, figure di divinità e animali con particolari di un "naturalismo di straordinaria precisione". I medaglioni in gesso alessandrini, ellenistici: busti di giovane e di amorino alato, una straordinaria "natura morta", quasi un non finito con foglie di vite e grappoli d'uva.
E fra i bronzi qualcosa di unico: un bacile del diametro di 46 centimetri con la Medusa e pesci sul quale il restauro fatto a Parigi per la mostra ha rivelato "una decorazione policroma dipinta assolutamente straordinaria e unica" per un bronzi antico. Non solo, ma che "stupisce per l'estrema mobilità" delle parti delle pinne e delle code dei pesci". Sono circa ottanta gli elementi mobili "che si muovono quando il bacile viene spostato" e "la loro vibrazione prosegue anche dopo che l'opera è stata poggiata". Pinne e code dei pesci, braccia e ali dei personaggi, la Medusa, sono articolate grazie a lamelle di bronzo, fori, anelli, piombini. Sono comprese fra le meraviglie in bronzo di Begram, non esposte, quegli "acquari in bronzo" in cui "alcuni pesci fissati ad una minuscola catenella possono 'nuotarè una volta che il recipiente sia pieno".
Alla mostra sono aggiunte, come anteprima, due statue in terracotta di "Devata", alte 110 e 117 centimetri, di "fattura eccezionalmente raffinata" e molto rare anche nei grandi musei. Datate al VI-VII secolo, rappresentano una divinità femminile ed una maschile, e provengono da Hund, valle di Peshawar nell'odierno Pakistan. Sono state acquistate sul mercato internazionale (Londra) dalla Compagnia di San Paolo (560 mila euro) e sono destinate in comodato al "Mao": sigla del futuro Museo di arte orientale di Torino di cui il Comune ha previsto l'apertura al pubblico il 15 settembre 2008 (una programmazione mai così puntuale in Italia). Il "Mao" sostituirà il Museo civico di numismatica ed etnografia con una sezione di arti orientali, di via Bricherasio, chiuso da anni. La sede del "Mao" (diretto da Franco Ricca) è in pieno centro città, il seicentesco Palazzo Mazzonis, tre piani e un'ala laterale, in via San Domenico 11.
La mostra sui tesori dell'Afghanistan richiama continuamente il mondo romano. Il Museo di arte antica che la ospita aggiunge finalmente il godimento di una parte esclusa di Torino romana, quel pezzo del teatro antico davanti al museo che non è stata inglobata nelle fondamenta della Manica Nuova di Palazzo Reale.


di Goffredo Silvestri

Notizie utili - "Afghanistan i tesori ritrovati. Le collezioni del museo nazionale di Kabul". Dal 25 maggio al 23 settembre. Torino. Museo di antichità. Piazza Duomo, angolo via XX settembre. Progettata dal Musée national des Arts asiatique- Guimet di Parigi. A cura di Pierre Cambon, conservatore capo della sezione arte del Pakistan e Afghanistan. Allestimento Andrea Bruno. Promossa e organizzata dalla Fondazione per l'arte della Compagnia di San Paolo. Catalogo Umberto Allemandi.
Biglietti: intero integrato mostra e museo, 8 euro; ridotto integrato mostra e museo, 5. Visite guidate con archeologo per singoli e gruppi, visite per scuole e centri estivi: 011-4396140 (telefono e fax, dal martedì alla domenica). Informazioni numero verde 800329329 tutti i giorni per prenotazioni di singoli e gruppi.
Orari: da martedì a domenica 10,30-19,30; giovedì e sabato 10,30-23; lunedì chiuso.


(2 luglio 2007)


da: www.repubblica.it/2007/07/sezioni/arte/recensioni/oro-afghanistan/oro-afghanistan/oro-afghanis...

[Modificato da vanni-merlin 07/07/2007 10.09]

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