PINOCCHIO (10 - 13) di Carlo Collodi

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vanni-merlin
00domenica 1 marzo 2009 11:16
X.

I burattini riconoscono il loro fratello Pinocchio, e gli fanno
una grandissima festa; ma sul piú bello, esce fuori il burattinaio Mangiafoco, e Pinocchio corre il pericolo di fare una brutta fine.




Quando Pinocchio entrò nel teatrino delle marionette, accadde un fatto che destò una mezza rivoluzione.

Bisogna sapere che il sipario era tirato su e la commedia era già incominciata.

Sulla scena si vedevano Arlecchino e Pulcinella, che bisticciavano fra di loro e, secondo il solito, minacciavano da un momento all’altro di scambiarsi un carico di schiaffi e di bastonate.

La platea, tutta attenta, si mandava a male dalle grandi risate, nel sentire il battibecco di quei due burattini, che gestivano e si trattavano d’ogni vitupero con tanta verità, come se fossero proprio due animali ragionevoli e due persone di questo mondo.

Quando all’improvviso, che è che non è, Arlecchino smette di recitare, e voltandosi verso il pubblico e accennando colla mano qualcuno in fondo alla platea, comincia a urlare in tono drammatico:

— Numi del firmamento! sogno o son desto? Eppure quello laggiú è Pinocchio!...

— È Pinocchio davvero! — grida Pulcinella.

— È proprio lui! — strilla la signora Rosaura, facendo capolino di fondo alla scena.

— È Pinocchio! è Pinocchio! — urlano in coro tutti i burattini, uscendo a salti fuori dalle quinte. — È Pinocchio! È il nostro fratello Pinocchio! Evviva Pinocchio!...

— Pinocchio, vieni quassú da me! — grida Arlecchino — vieni a gettarti fra le braccia dei tuoi fratelli di legno! —

A questo affettuoso invito, Pinocchio spicca un salto, e di fondo alla platea va nei posti distinti; poi con un altro salto, dai posti distinti monta sulla testa del direttore d’orchestra, e di lí schizza sul palcoscenico.


È impossibile figurarsi gli abbracciamenti, gli strizzoni di collo, i pizzicotti dell’amicizia e le zuccate della vera e sincera fratellanza, che Pinocchio ricevé in mezzo a tanto arruffío dagli attori e dalle attrici di quella compagnia drammatico-vegetale.

Questo spettacolo era commovente, non c’è che dire: ma il pubblico della platea, vedendo che la commedia non andava piú avanti, s’impazientí e prese a gridare:

— Vogliamo la commedia, vogliamo la commedia! —

Tutto fiato buttato via, perché i burattini, invece di continuare la recita, raddoppiarono il chiasso e le grida, e, postosi Pinocchio sulle spalle, se lo portarono in trionfo davanti ai lumi della ribalta.

Allora uscí fuori il burattinaio, un omone cosí brutto, che metteva paura soltanto a guardarlo. Aveva una barbaccia nera come uno scarabocchio d’inchiostro, e tanto lunga che gli scendeva dal mento fino a terra: basta dire che, quando camminava, se la pestava coi piedi. La sua bocca era larga come un forno, i suoi occhi parevano due lanterne di vetro rosso, col lume acceso di dietro; e con le mani schioccava una grossa frusta, fatta di serpenti e di code di volpe attorcigliate insieme.

All’apparizione inaspettata del burattinaio, ammutolirono tutti: nessuno fiatò piú. Si sarebbe sentito volare una mosca. Quei poveri burattini, maschi e femmine, tremavano come tante foglie.

— Perché sei venuto a mettere lo scompiglio nel mio teatro? — domandò il burattinaio a Pinocchio, con un vocione d’Orco gravemente infreddato di testa.

— La creda, illustrissimo, che la colpa non è stata mia!...

— Basta cosí! Stasera faremo i nostri conti. —

Difatti, finita la recita della commedia, il burattinaio andò in cucina, dov’egli s’era preparato per cena un bel montone, che girava lentamente infilato nello spiede. E perché gli mancavano le legna per finirlo di cuocere e di rosolare, chiamò Arlecchino e Pulcinella e disse loro:

— Portatemi di qua quel burattino, che troverete attaccato al chiodo. Mi pare un burattino fatto di un legname molto asciutto, e sono sicuro che, a buttarlo sul fuoco, mi darà una bellissima fiammata all’arrosto. —

Arlecchino e Pulcinella da principio esitarono; ma impauriti da un’occhiataccia del loro padrone, obbedirono: e dopo poco tornarono in cucina, portando sulle braccia il povero Pinocchio, il quale, divincolandosi come un’anguilla fuori dell’acqua, strillava disperatamente:

— Babbo mio, salvatemi! Non voglio morire, no, non voglio morire!... —



XI.

Mangiafoco starnutisce e perdona a Pinocchio, il quale poi difende dalla morte il suo amico Arlecchino.




Il burattinaio Mangiafoco (ché questo era il suo nome) pareva un uomo spaventoso, non dico di no, specie con quella sua barbaccia nera che, a uso grembiale, gli copriva tutto il petto e tutte le gambe; ma nel fondo poi non era un cattiv’uomo. Prova ne sia che quando vide portarsi davanti quel povero Pinocchio, che si dibatteva per ogni verso, urlando «Non voglio morire, non voglio morire!», principiò subito a commuoversi e a impietosirsi; e dopo aver resistito un bel pezzo, alla fine non ne poté piú, e lasciò andare un sonorissimo starnuto.

A quello starnuto, Arlecchino, che fin allora era stato afflitto e ripiegato come un salcio piangente, si fece tutto allegro in viso e chinatosi verso Pinocchio, gli bisbigliò sottovoce:

— Buone nuove, fratello! Il burattinaio ha starnutito, e questo è segno che s’è mosso a compassione per te, e oramai sei salvo. —

Perché bisogna sapere che, mentre tutti gli uomini, quando si sentono impietositi per qualcuno, o piangono, o per lo meno fanno finta di rasciugarsi gli occhi, Mangiafoco, invece, ogni volta che s’inteneriva davvero aveva il vizio di starnutire. Era un modo come un altro, per dare a conoscere agli altri la sensibilità del suo cuore.

Dopo avere starnutito, il burattinaio, seguitando a fare il burbero, gridò a Pinocchio:

— Finiscila di piangere! I tuoi lamenti mi hanno messo un’uggiolina qui in fondo allo stomaco... sento uno spasimo, che quasi quasi... Etcí! Etcí! — e fece altri due starnuti.

— Felicità! — disse Pinocchio.


— Grazie. E il tuo babbo e la tua mamma sono sempre vivi? — gli domandò Mangiafoco.

— Il babbo, sí: la mamma non l’ho mai conosciuta.

— Chi lo sa che dispiacere sarebbe per il tuo vecchio padre, se ora ti facessi gettare fra que’ carboni ardenti! Povero vecchio! lo compatisco!... Etcí, etcí, etcí — e fece altri tre starnuti.

— Felicità! — disse Pinocchio.

— Grazie! Del resto bisogna compatire anche me, perché, come vedi, non ho piú legna per finire di cuocere quel montone arrosto, e tu, dico la verità, in questo caso mi avresti fatto un gran comodo! Ma ormai mi sono impietosito e ci vuol pazienza. Invece di te, metterò a bruciare sotto lo spiede qualche burattino della mia Compagnia. Olà, giandarmi! —

A questo comando comparvero subito due giandarmi di legno, lunghi lunghi, secchi secchi, col cappello a lucerna in testa e colla sciabola sfoderata in mano.

Allora il burattinaio disse loro con voce rantolosa:

— Pigliatemi lí quell’Arlecchino, legatelo ben bene, e poi gettatelo a bruciare sul fuoco. Io voglio che il mio montone sia arrostito bene! —

Figuratevi il povero Arlecchino! Fu tanto il suo spavento, che le gambe gli si ripiegarono e cadde bocconi per terra.

Pinocchio, alla vista di quello spettacolo straziante, andò a gettarsi ai piedi del burattinaio, e piangendo dirottamente e bagnandogli di lacrime tutti i peli della lunghissima barba, cominciò a dire con voce supplichevole:

— Pietà, signor Mangiafoco!...

— Qui non ci son signori! — replicò duramente il burattinaio.

— Pietà, signor Cavaliere!...

— Qui non ci sono cavalieri!

— Pietà, signor Commendatore!...

— Qui non ci sono commendatori!

— Pietà, Eccellenza!... —

A sentirsi chiamare Eccellenza, il burattinaio fece subito il bocchino tondo, e diventato tutt’a un tratto piú umano e piú trattabile, disse a Pinocchio:

— Ebbene, che cosa vuoi da me?

— Vi domando grazia per il povero Arlecchino!...

— Qui non c’è grazia che tenga. Se ho risparmiato te, bisogna che faccia mettere sul fuoco lui, perché io voglio che il mio montone sia arrostito bene.

— In questo caso — gridò fieramente Pinocchio, rizzandosi e gettando via il suo berretto di midolla di pane — in questo caso conosco qual è il mio dovere. Avanti, signori giandarmi! Legatemi e gettatemi là fra quelle fiamme. No, non è giusta che il povero Arlecchino, il vero amico mio, debba morire per me! —

Queste parole, pronunziate con voce alta e con accento eroico, fecero piangere tutti i burattini che erano presenti a quella scena. Gli stessi giandarmi, sebbene fossero di legno, piangevano come due agnellini di latte.

Mangiafoco, sul principio, rimase duro e immobile come un pezzo di ghiaccio: ma poi, adagio adagio, cominciò anche lui a commuoversi e a starnutire. E fatti quattro o cinque starnuti, aprí affettuosamente le braccia e disse a Pinocchio:

— Tu sei un gran bravo ragazzo! Vieni qua da me e dammi un bacio. —

Pinocchio corse subito, e arrampicandosi come uno scoiattolo su per la barba del burattinaio, andò a posargli un bellissimo bacio sulla punta del naso.

— Dunque la grazia è fatta? — domandò il povero Arlecchino, con un fil di voce che si sentiva appena.

— La grazia è fatta! — rispose Mangiafoco: poi soggiunse sospirando e tentennando il capo:

— Pazienza! Per questa sera mi rassegnerò a mangiare il montone mezzo crudo: ma un’altra volta, guai a chi toccherà!... —

Alla notizia della grazia ottenuta, i burattini corsero tutti sul palcoscenico e, accesi i lumi e i lampadari come in serata di gala, cominciarono a saltare e a ballare. Era l’alba e ballavano sempre.



XII.

Il burattinaio Mangiafoco regala cinque monete d’oro a Pinocchio
perché le porti al suo babbo Geppetto: e Pinocchio, invece, si lascia abbindolare dalla Volpe e dal Gatto e se ne va con loro.




Il giorno dipoi Mangiafoco chiamò in disparte Pinocchio e gli domandò:

— Come si chiama tuo padre?

— Geppetto.

— E che mestiere fa?

— Il povero.

— Guadagna molto?

— Guadagna tanto quanto ci vuole per non aver mai un centesimo in tasca. Si figuri che per comprarmi l’Abbecedario della scuola dové vendere l’unica casacca che aveva addosso: una casacca che, fra toppe e rimendi, era tutta una piaga.

— Povero diavolo! Mi fa quasi compassione. Ecco qui cinque monete d’oro. Va’ subito a portargliele e salutalo tanto da parte mia. —

Pinocchio, com’è facile immaginarselo, ringraziò mille volte il burattinaio: abbracciò, a uno a uno, tutti i burattini della compagnia, anche i giandarmi; e fuori di sé dalla contentezza, si mise in viaggio per ritornarsene a casa sua.

Ma non aveva fatto ancora mezzo chilometro, che incontrò per la strada una Volpe zoppa da un piede e un Gatto cieco da tutt’e due gli occhi che se ne andavano là là, aiutandosi fra di loro, da buoni compagni di sventura. La Volpe, che era zoppa, camminava appoggiandosi al Gatto: e il Gatto, che era cieco, si lasciava guidare dalla Volpe.

— Buon giorno, Pinocchio — gli disse la Volpe, salutandolo garbatamente.

— Com’è che sai il mio nome? — domandò il burattino.

— Conosco bene il tuo babbo.

— Dove l’hai veduto?


— L’ho veduto ieri sulla porta di casa sua.

— E che cosa faceva?

— Era in maniche di camicia e tremava dal freddo.

— Povero babbo! Ma, se Dio vuole, da oggi in poi non tremerà piú!...

— Perché?

— Perché io sono diventato un gran signore.

— Un gran signore tu? — disse la Volpe, e cominciò a ridere di un riso sguaiato e canzonatore: e il Gatto rideva anche lui, ma per non darlo a vedere, si pettinava i baffi colle zampe davanti.

— C’è poco da ridere — gridò Pinocchio impermalito. — Mi dispiace davvero di farvi venire l’acquolina in bocca, ma queste qui, se ve ne intendete, sono cinque bellissime monete d’oro. —

E tirò fuori le monete avute in regalo da Mangiafoco.

Al simpatico suono di quelle monete, la Volpe per un moto involontario allungò la gamba che pareva rattrappita, e il Gatto spalancò tutt’e due gli occhi che parvero due lanterne verdi: ma poi li richiuse subito, tant’è vero che Pinocchio non si accòrse di nulla.

— E ora — gli domandò la Volpe — che cosa vuoi farne di codeste monete?

— Prima di tutto — rispose il burattino — voglio comprare per il mio babbo una bella casacca nuova, tutta d’oro e d’argento e coi bottoni di brillanti: e poi voglio comprare un Abbecedario per me.

— Per te?

— Davvero: perché voglio andare a scuola e mettermi a studiare a buono.

— Guarda me! — disse la Volpe. — Per la passione sciocca di studiare ho perduto una gamba.

— Guarda me! — disse il Gatto. — Per la passione sciocca di studiare ho perduto la vista di tutti e due gli occhi. —

In quel mentre un Merlo bianco, che se ne stava appollaiato sulla siepe della strada, fece il suo solito verso e disse:

— Pinocchio, non dar retta ai consigli dei cattivi compagni: se no, te ne pentirai! —

Povero Merlo, non l’avesse mai detto! Il Gatto, spiccando un gran salto, gli si avventò addosso, e senza dargli nemmeno il tempo di dire ohi, se lo mangiò in un boccone, con le penne e tutto.

Mangiato che l’ebbe e ripulitosi la bocca, chiuse gli occhi daccapo, e ricominciò a fare il cieco come prima.

— Povero Merlo! — disse Pinocchio al Gatto — perché l’hai trattato cosí male?

— Ho fatto per dargli una lezione. Cosí un’altra volta imparerà a non metter bocca nei discorsi degli altri. —

Erano giunti piú che a mezza strada quando la Volpe, fermandosi di punto in bianco, disse al burattino:

— Vuoi raddoppiare le tue monete d’oro?

— Cioè?

— Vuoi tu, di cinque miserabili zecchini, farne cento, mille, duemila?

— Magari! e la maniera?

— La maniera è facilissima. Invece di tornartene a casa tua, dovresti venir con noi.

— E dove mi volete condurre?

— Nel paese dei Barbagianni. —

Pinocchio ci pensò un poco, e poi disse risolutamente:

— No, non ci voglio venire. Oramai sono vicino a casa, e voglio andarmene a casa, dove c’è il mio babbo che m’aspetta. Chi lo sa, povero vecchio, quanto ha sospirato ieri, a non vedermi tornare. Pur troppo io sono stato un figliolo cattivo, e il Grillo-parlante aveva ragione quando diceva: «i ragazzi disobbedienti non possono aver bene in questo mondo». E io l’ho provato a mie spese, perché mi sono capitate dimolte disgrazie, e anche ieri sera in casa di Mangiafoco, ho corso pericolo... Brrr! mi viene i bordoni soltanto a pensarci!

— Dunque — disse la Volpe — vuoi proprio andare a casa tua? Allora va’ pure, e tanto peggio per te.

— Tanto peggio per te! — ripeté il Gatto.

— Pensaci bene, Pinocchio, perché tu dai un calcio alla fortuna.

— Alla fortuna! — ripeté il Gatto.

— I tuoi cinque zecchini, dall’oggi al domani sarebbero diventati duemila.

— Duemila! — ripeté il Gatto.

— Ma com’è mai possibile che diventino tanti? — domandò Pinocchio, restando a bocca aperta dallo stupore.

— Te lo spiego subito — disse la Volpe. — Bisogna sapere che nel paese dei Barbagianni c’è un campo benedetto, chiamato da tutti il Campo dei miracoli. Tu fai in questo campo una piccola buca e ci metti dentro, per esempio, uno zecchino d’oro. Poi ricopri la buca con un po’ di terra: l’annaffi con due secchie d’acqua di fontana, ci getti sopra una presa di sale, e la sera te ne vai tranquillamente a letto. Intanto, durante la notte, lo zecchino germoglia e fiorisce, e la mattina dopo, di levata, ritornando nel campo, che cosa trovi? Trovi un bell’albero carico di tanti zecchini d’oro quanti chicchi di grano può avere una bella spiga nel mese di giugno.

— Sicché dunque — disse Pinocchio sempre piú sbalordito — se io sotterrassi in quel campo i miei cinque zecchini, la mattina dopo quanti zecchini ci troverei?

— È un conto facilissimo — rispose la Volpe — un conto che puoi farlo sulla punta delle dita. Poni che ogni zecchino ti faccia un grappolo di cinquecento zecchini: moltiplica il cinquecento per cinque, e la mattina dopo ti trovi in tasca duemilacinquecento zecchini lampanti e sonanti.

— Oh che bella cosa! — gridò Pinocchio, ballando dall’allegrezza. — Appena che questi zecchini li avrò raccolti, ne prenderò per me duemila e gli altri cinquecento di piú li darò in regalo a voialtri due.

— Un regalo a noi? — gridò la Volpe sdegnandosi e chiamandosi offesa. — Dio te ne liberi!

— Te ne liberi! — ripeté il Gatto.

— Noi — riprese la Volpe — non lavoriamo per il vile interesse: noi lavoriamo unicamente per arricchire gli altri.

— Gli altri! — ripeté il Gatto.

— Che brave persone! — pensò dentro di sé Pinocchio: e dimenticandosi lí sul tamburo, del suo babbo, della casacca nuova, dell’Abbecedario e di tutti i buoni proponimenti fatti, disse alla Volpe e al Gatto:

— Andiamo subito, io vengo con voi. —



XIII.

L’osteria del «Gambero Rosso».





Cammina, cammina, cammina, alla fine sul far della sera arrivarono stanchi morti all’osteria del Gambero Rosso.
— Fermiamoci un po’ qui — disse la Volpe — tanto per mangiare un boccone e per riposarci qualche ora. A mezzanotte poi ripartiremo per essere domani, all’alba, nel Campo dei miracoli.

— Entrati nell’osteria, si posero tutti e tre a tavola: ma nessuno di loro aveva appetito.

Il povero Gatto, sentendosi gravemente indisposto di stomaco, non poté mangiare altro che trentacinque triglie con salsa di pomodoro e quattro porzioni di trippa alla parmigiana: e perché la trippa non gli pareva condita abbastanza, si rifece tre volte a chiedere il burro e il formaggio grattato!


La Volpe avrebbe spelluzzicato volentieri qualche cosa anche lei: ma siccome il medico le aveva ordinato una grandissima dieta, cosí dové contentarsi di una semplice lepre dolce e forte con un leggerissimo contorno di pollastre ingrassate e di galletti di primo canto. Dopo la lepre, si fece portare per tornagusto un cibreino di pernici, di starne, di conigli, di ranocchi, di lucertole e d’uva paradisa; e poi non volle altro. Aveva tanta nausea per il cibo, diceva lei, che non poteva accostarsi nulla alla bocca.

Quello che mangiò meno di tutti fu Pinocchio. Chiese uno spicchio di noce e un cantuccio di pane, e lasciò nel piatto ogni cosa. Il povero figliuolo, col pensiero sempre fisso al Campo dei miracoli, aveva preso un’indigestione anticipata di monete d’oro.

Quand’ebbero cenato, la Volpe disse all’oste:

— Datemi due buone camere, una per il signor Pinocchio e un’altra per me e per il mio compagno. Prima di ripartire stiacceremo un sonnellino. Ricordatevi però che a mezzanotte vogliamo essere svegliati per continuare il nostro viaggio.

— Sissignori — rispose l’oste, e strizzò l’occhio alla Volpe e al Gatto, come dire: «Ho mangiata la foglia e ci siamo intesi!...»

Appena che Pinocchio fu entrato nel letto, si addormentò a colpo e principiò a sognare. E sognando gli pareva di essere in mezzo a un campo, e questo campo era pieno di arboscelli carichi di grappoli, e questi grappoli erano carichi di zecchini d’oro che, dondolandosi mossi dal vento, facevano zin, zin, zin, quasi volessero dire «chi ci vuole, venga a prenderci». Ma quando Pinocchio fu sul piú bello, quando, cioè, allungò la mano per prendere a manciate tutte quelle belle monete e mettersele in tasca, si trovò svegliato all’improvviso da tre violentissimi colpi dati nella porta di camera.

Era l’oste che veniva a dirgli che la mezzanotte era sonata.

— E i miei compagni sono pronti? — gli domandò il burattino.

— Altro che pronti! Sono partiti due ore fa.

— Perché mai tanta fretta?

— Perché il Gatto ha ricevuto un’imbasciata, che il suo gattino maggiore, malato di geloni ai piedi, stava in pericolo di vita.

— E la cena l’hanno pagata?

— Che vi pare? Quelle lí sono persone troppo educate, perché facciano un affronto simile alla signoria vostra.

— Peccato! Quest’affronto mi avrebbe fatto tanto piacere! — disse Pinocchio, grattandosi il capo. Poi domandò:

— E dove hanno detto di aspettarmi quei buoni amici?

— Al Campo dei miracoli, domattina, allo spuntare del giorno. —

Pinocchio pagò uno zecchino per la cena sua e per quella dei suoi compagni, e dopo partí.

Ma si può dire che partisse a tastoni, perché fuori dell’osteria c’era un buio cosí buio che non ci si vedeva da qui a lí. Nella campagna all’intorno non si sentiva alitare una foglia. Solamente, di tanto in tanto, alcuni uccellacci notturni, traversando la strada da una siepe all’altra, venivano a sbattere le ali sul naso di Pinocchio, il quale facendo un salto indietro per la paura, gridava: — Chi va là? — e l’eco delle colline circostanti ripeteva in lontananza: — Chi va là? chi va là? chi va là? —

Intanto, mentre camminava, vide sul tronco di un albero un piccolo animaletto che riluceva di una luce pallida e opaca, come un lumino da notte dentro una lampada di porcellana trasparente.

— Chi sei? — gli domandò Pinocchio.

— Sono l’ombra del Grillo-parlante — rispose l’animaletto con una vocina fioca fioca, che pareva venisse dal mondo di là.

— Che vuoi da me? — disse il burattino.

— Voglio darti un consiglio. Ritorna indietro e porta i quattro zecchini, che ti sono rimasti, al tuo povero babbo, che piange e si dispera per non averti piú veduto.

— Domani il mio babbo sarà un gran signore, perché questi quattro zecchini diventeranno duemila.

— Non ti fidare, ragazzo mio, di quelli che promettono di farti ricco dalla mattina alla sera. Per il solito o sono matti o imbroglioni! Dài retta a me, ritorna indietro.

— E io invece voglio andare avanti.

— L’ora è tarda!...

— Voglio andare avanti.

— La nottata è scura...

— Voglio andare avanti.

— La strada è pericolosa...

— Voglio andare avanti.

— Ricordati che i ragazzi che vogliono fare di capriccio e a modo loro, prima o poi se ne pentono.

— Le solite storie. Buona notte, Grillo.

— Buona notte, Pinocchio, e che il cielo ti salvi dalla guazza e dagli assassini. —

Appena dette queste ultime parole, il Grillo-parlante si spense a un tratto, come si spenge un lume soffiandoci sopra, e la strada rimase piú buia di prima.
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