Sulmona (AQ)

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vanni-merlin
00sabato 11 marzo 2006 23:12
Sulmona (AQ)


"Sulmona è la mia patria" cantò Ovidio consegnando la memoria della città alla storia Ci avviamo a chiudere il secolo e con esso liquideremo anche il Millennio, il secondo dell'era cristiana, ma forse il terzo per la vetusta Sulmona che, come narrarono i fantasiosi scrittori del passato, con forte anticipo sulla nascita di Roma era stata fondata da Solimo, fortunosamente scampato assieme ad Enea e ai suoi compagni alla distruzione di Troia. Quei protosulmonesi, che in realtà non erano oriundi della lontana Frigia ma solo italici peligni, rifuggendo dalle paludi acquitrinose del fondovalle avevano fissato stabile dimora in stazzi e capanne sui rilievi del Monte Mitra, difendendoli con possenti muraglie innalzate con grossi blocchi calcarei sbozzati dalle callose mani di tagliapietre improvvisati. Ed erano cresciuti in numero e in possanza pascolando le greggi e coltivando la terra, avevano barattato lane e pelli, avevano imparato a plasmare l'argilla, a forgiare il metallo: così, giorno dopo giorno, per secoli. Poi erano scesi dai monti per costruire nuovi abitacoli sul piccolo dosso incuneato tra i fiumi, circuendo anche quei pochi iugeri di terra con mura sicure, che videro passare le truppe di Annibale, li protessero quando levarono gli scudi contro Roma, si aprirono alle coorti cesariane di Marcantonio. Poi la pax augustea, la nuova lingua, le nuove divinità; la piccola Sulmo si fece città, i luoghi sacri divennero monumenti, i tuguri dimore sontuose. Sulmo mihi patria est, cantò in quel tempo non senza un pizzico di orgoglio il sommo Ovidio, consegnando la sua gente alla storia del primo millennio. Altri dieci secoli, una nuova era che vedeva sgretolarsi il mondo classico e l'affermarsi del Cristianesimo. Sulmona, come ora si chiamava quello che era stato uno dei tre municipia della terra dei Peligni, reggeva in qualche modo all'urto delle invasioni barbariche e, protetta dal guscio delle vecchie mura, varcava la soglia dell'anno Mille conservando almeno in parte l'essenza dell'antica dignità urbana: una fortuna che non era toccata a Corfinio che della decantata metropoli italica aveva perso perfino il nome. E quando le mutate condizioni socio politiche restituirono le aree urbanizzate alla loro piena funzione di poli centrali della vita comunitaria, imponenti flussi migratori muovendo dalla campagna e dai villaggi vicini e lontani rivitalizzarono anche il vetusto abitato sulmonese, tanto che il vescovo valvense prese a soggiornarvi con crescente frequenza, fino ad abbandonare per sempre la turrita residenza corfiniese, bella e carica di storia ma isolata nella sua solitudine, ormai quasi cattedrale nel deserto. Poi la splendida ma troppo breve parentesi sveva: il giustizierato, le fiere annuali, la cattedra di Diritto Canonico concorsero con l'irrobustito potenziale demico allo sviluppo urbanistico della città: gli edifici pubblici e privati accresciuti e rinnovati, l'arrivo dei grandi ordini dei Mendicanti e di quel Pietro Angelerio da Isernia che darà vita e vigore alla montagna sacra dei Peligni, i nuovi borghi, la grande piazza del mercato con le botteghe di Porta Salvatoris a far da volano alla dinamica mercantile, ne faranno in breve la capitale indiscussa della giovane regione sorta ai confini del regno. Monumento emblematico di quel tempo felice, l'acquedotto medievale; Sulmontinorum laus, come con giustificata enfasi si scrisse sulla pietra posta a ricordo del suo completamento in quel lontano 1256: una condotta sopraelevata su ventuno possenti arcate ogivali che si rincorrono per oltre cento metri, impropriamente riferita a re Manfredi, ma che era già compiuta ancor prima che il figlio naturale di Federico salisse al trono. E ora che la critica ha accreditato di maggiore antichità il frammento di affresco del Museo Civico recuperato all'inizio del secolo da un edificio in ristrutturazione - che vorremmo tanto poter identificare con una delle domus curie, que sunt apud Sulmone delle fonti storiche - la città vanta anche un'altra reliquia del tempo degli Svevi, meno appariscente, forse, ma altrettanto suggestiva. Difatti, con un po' di fantasia condita da un pizzico di amore per il campanile, che nella giusta dose non guasta mai, in quell'enigmatico personaggio di nobile lignaggio, per quasi un secolo creduto re Ladislao di Durazzo, potrebbe ravvedersi il grande imperatore o, se volete, quel giovane che "biondo era, e bello e di gentile aspetto" di dantesca memoria che fu Manfredi. Ma venne la triste giornata dei Campi Palentini e - per dirla con l'Aleardi - "come dilegua una ardente stella, mutò zona lo svevo astro e disparve"; con la testa di Corradino mozzata sulla piazza del mercato di Napoli caddero anche le fortune dei Sulmonesi. Lutti, esili e confische colpirono i partigiani - ed erano tantissimi - del giovane rampollo degli Hohenstaufen, mentre l'avversa politica angioina privava la città di molti dei suoi privilegi. Riuscirà, però, a completare in qualche modo il grande progetto di età federiciana e avrà la sua grande piazza del mercato, allargherà la cinta muraria a contenere il complesso cattedrale-episcopio e i nuovi borghi sorti alla periferia del primitivo nucleo, trasformerà in senso monumentale chiese e palazzi. E nel mentre fioriranno botteghe artigiane e attivissimi commerci, che convoglieranno lana, seta e zafferano verso i grandi empori mercantili della Penisola, uomini di cultura di valore assoluto, maestranze indigene e forestiere, magistri esperti nell'arte dell'oro e dell'argento daranno lustro e spessore all'immagine della città.
Che non potrà evitare, però, le conseguenze delle grandi crisi, delle pestilenze, delle guerre e dei ricorrenti eventi sismici che sul crepuscolo del Medioevo finiranno per minare le basi dell'economia, depauperando l'eccezionale patrimonio architettonico e demografico di quella che era stata "città bella e ricca di popolo", destinata in breve ad essere infeudata. Fasti e nefasti, vicende tristi e liete, che segnarono il tardo Medioevo e il Rinascimento, e poi il tempo della Controriforma e del Barocco, passaggi obbligati della civitas sulmontinorum, di cui l'eclettico complesso palazzo-chiesa-campanile dell'Annunziata sembra riassumerne lo spirito, sintetizzarne l'essenza, condensarne i valori. Il terribile sisma del 6 novembre 1706 - circa mille morti su una popolazione di 4000 anime è sufficiente a dare la misura della catastrofe - ne condizionerà l'andamento demico per oltre un secolo, mentre la ricostruzione affrettata, e purtroppo a volte pasticciata, ne svilirà le architetture. E il secolo, che si era aperto con siffatta catastrofe, stava per chiudersi col sacco dei Francesi, evitato per miracolo solo perché case, chiese e conventi servivano agli acquartieramenti della truppa; a pagare lo scotto della resistenza armata furono pertanto solo una trentina di poveracci, fucilati per essersi ribellati ai Galli civitatem invadentes... Solo nell'Ottocento si avvertiranno segnali incoraggianti di ripresa, che assumeranno ritmi quasi vorticosi all'indomani dell'Unità d'Italia. Sulmona avrà le scuole, i giornali, la biblioteca e un piccolo museo, rinnoverà le fogne, lastricherà le strade e, mandando in pensione i vecchi lumicini ad olio, le illuminerà con moderne lampade ad incandescenza. Poi diventerà un importante nodo ferroviario e col primo Novecento arriverà l'acqua corrente e perfino la tranvia. Quelli, purtroppo, furono anche gli anni della grande emigrazione e delle aspre lotte politiche, una tradizione ormai che vedeva i Sulmonesi sempre divisi a parteggiare per questo o per quello, sempre pronti a mozzare le teste emergenti. E così facendo hanno spesso sbagliato, dando in tal modo man forte al fato avverso. Che i Sulmontini non fossero mai stati troppo accorti e tanto meno fortunati in certe loro scelte di fondo è risaputo, e chissà se la colpa di tutto non sia da imputare al loro "peccato originale", che fu quello di riconoscersi nella progenie di quel Solimo di Troia, uno duramente toccato dalla mala sorte, in definitiva un vinto, un perdente. Che dire poi di Ovidio Nasone, il figlio più grande, vanto della Sulmo romana e della peligna gens, condannato per colpe neppure conosciute a finire i suoi giorni tra i semibarbari del Ponto? Di più iellati di lui la storia di certo ne ricorda pochi. Non avevano avuto, infatti, mano felice al tempo della prima guerra civile nel prendere le parti di Mario e Silla aveva decretato la distruzione di Sulmona. Nella contesa tra Cesare e Pompeo le cose stavano per prendere la stessa piega e solo rinunciando a sogni di gloria e aprendo le porte a Marcantonio e alle sue coorti fu evitato il peggio. E come in età augustea avevano perso il concittadino più illustre, più tardi perderanno anche il pastore e la cattedra vescovile - che al tempo non era cosa da poco - per riaverli solo secoli più tardi e a prezzo di contese e dissapori a non finire, e non per meriti speciali ma unicamente perché la vicina Pentima in quanto a "scalogna" non era certo stata seconda alla città sorella. Scelte sbagliate perfino al tempo del massimo splendore, perché quando i gigli d'Angiò soppiantarono le aquile di Svevia, all'effimera gloria seguirono i giorni neri. E cosa fecero i Sulmontini? Invece di stringersi in schiere compatte, si divisero in guelfi e ghibellini. E la smania di starsene arroccati su opposte sponde a contendersi le miserie del potere "casereccio" perdurò a lungo, così che finito il tempo dei "bianchi" e dei "neri" si misero a giuocare ai Montecchi e Capuleti, un vizietto perpetuatosi nel tempo e pagato a caro prezzo anche a distanza di secoli. Chi conosce un po' di storia cittadina più recente sa delle lotte tra partiti avversi in epoca post-unitaria e poi con la monarchia e perfino col fascismo. Emblematico l'episodio della provincia, anzi della mancata provincia. In quei primi anni del "ventennio" c'era un gerarca locale che aveva fatto carriera e per di più era amico personale di Mussolini, col quale era in tanta confidenza che gli aveva perfino prestato il proprio frac quando il Duce dovette presenziare la prima cerimonia ufficiale. Certo, se i Sulmonesi fossero stati furbi si sarebbero ben guardati dal far torto a quel che si dice il santo in paradiso; invece, lo osteggiarono al punto tale che, quando si trattò di decidere sulle nuove provincie - e Sulmona era tra le aspiranti -, il santo non ascoltò le preci dei compaesani e finì per favorire la scelta di Rieti, città alla quale pare fosse legato da motivi "sentimentali". C'era stata nel frattempo anche la storia della rivolta contadina del '29. I nostri bravi "cafoni" pressati dai pesanti balzelli che gravavano su ogni prodotto della campagna in entrata e in uscita dalla "cintura daziaria", fosse pure un fascetto di sterpi per far fuoco, una bella mattina s'erano "incavolati" ed erano andati all'assalto dei posti di guardia con roncole e forconi sfasciando garitte ed ogni cosa. Una brutta faccenda che non era piaciuta al Regime e per la quale Sulmona finì nel "libro nero" dei cattivi. Difatti, da quel momento per farsi bella almeno un poco dovette arrangiarsi; così fu per il monumento a Ovidio, per Piazza XX Settembre, per la Villa Comunale e per altri lavori di pubblica utilità; il Teatro fu addirittura realizzato - molto bene, bisogna riconoscerlo - unicamente con le sottoscrizioni dei patiti della lirica. In quanto allo "Stadio" - che ovviamente si disse del Littorio - il risultato fu quanto mai infelice, in pratica ne venne fuori un mezzo aborto e tale è rimasto nonostante aggiunte e aggiustamenti successivi.
Col terremoto del 1933 per poco non si ripeteva la tragedia del 1706 e col nuovo piano regolatore, nella smania di far troppo, si cominciò a metter mano anche al centro storico, che si voleva ridisegnare cancellando tutto il "vecchiume" e reinventando strade e piazze porticate, con qualche lacerto di antico qua e là a fare un po' di scena. E, guarda caso, fu solo la guerra a fermare lo scempio. La musica, dunque, non cambiava e si seguitava a sbagliare, mentre non mancavano i mali comuni e di magra consolazione era certamente il "mezzo gaudio": le guerre, quelle africane e quelle grandi, la prima e la seconda, i bombardamenti, i Tedeschi, la dura realtà del dopoguerra. Soppressioni, mancate promesse, emigrazione di massa, disoccupazione crescente portarono alla sommossa del '57: un episodio direi inevitabile, maturato negli anni ma innescato incidentalmente dal proditorio trasferimento del distretto militare. La rivolta fu detta "borghese" dagli uni, "popolare" dagli altri: "jamm' mò" fu comunque l'intraducibile grido di battaglia per tutti sulle barricate, un grido che fece epopea, che per due notti e due giorni terrorizzò i "celerini" di mezza Italia accorsi a centinaia in quelle fatidiche giornate di febbraio per sedare la strana "rivoluzione" dei Sulmonesi. E mentre la faccenda di "Jamm' mò" si trascinava nelle aule dei tribunali, i "borghesi" di Sulmona si ricordarono di colui che aveva cantato Sulmo mihi patria est e nel 1958 ne celebrarono degnamente i duemila anni della nascita. Per l'occasione fecero un grande scavo in quella che da sempre si credeva la villa, anzi - per dirla col popolino - le "poteche" del loro grande conterraneo, affioranti alle falde del Morrone, appena una spanna più in basso del romitorio di Sant'Onofrio che nel 1294 aveva visto salire i potenti della terra a rendere omaggio all'eremita Pietro Angelerio, eletto papa nel conclave di Perugia. Si frugò tra le rocce assolate per trovare i favolosi tesori nascosti di cui si diceva e i segni tangibili del Sommo Vate. Quelli dovevano esserci ancora e di sicuro - si pensava - una volta riportati alla luce nessuno avrebbe avuto il coraggio di portarli altrove. Ma i Sulmonesi si sbagliarono anche questa volta, e di grosso, perché il piccone indagatore col rilevare non la casa di Ovidio ma un santuario, non solo sfatò le suggestioni di una lunga tradizione ma, quel ch'è peggio, lo stato padrone in nome della legalità, che troppo spesso si fa rispettare solo quando fa comodo a chi comanda, non mantenne le promesse e si prese il tesoro. E così l'Eracle in riposo, che era il pezzo più pregiato - non a caso per la splendida scultura in bronzo si è fatto il nome di Lisippo - finì in esilio anche lui. E poiché la storia si ripete, c'è da temere che, come al Poeta, neppure a lui sarà concesso di tornare all'ombra del Morrone. Con quell'aria di fronda che spirava per le contrade peligne, figurarsi quali e quante prospettive potevano avere i Sulmonesi in lotta per il capoluogo di regione, loro che non erano stati capaci di agguantare la provincia quando era stata quasi a portata di mano, loro che avevano addirittura osato ribellarsi al potere costituito! E per correr dietro a tanti sogni impossibili, in quei frangenti a nessuno venne in mente di puntare sulla cultura e sull'università, grosse torte al tempo non ancora tutte spartite, e nessuno ricordò che in epoca murattiana il sottintendente Giuseppe De Thomasis aveva messo a punto un progetto per l'istituzione in Sulmona di un centro universitario abruzzese, arenatosi per le solite beghe e definitivamente abbandonato con la restaurazione borbonica. Da allora, i discendenti del Poeta degli Amori, gabbati spesso dalla sventura e geneticamente facili all'error, si son trovati in molti casi a far fronte a questa o a quell'altra emergenza, a lottare - e non sempre con successo - per evitare altri trasferimenti, declassazioni e nuove spoliazioni. Sfiorati appena dall'autostrada e sotto la perenne minaccia del taglio dei rami secchi della ferrovia, con l'agricoltura in disarmo e col processo di industrializzazione ormai in fase stagnante, cercano di aguzzare l'ingegno per non diventare piccoli piccoli. Ma intanto negli anni Sessanta si facevano stupidamente soffiare il Festival dei Due Mondi, involatosi poi verso altri lidi, ma che allora Menotti offriva loro su un piatto d'argento. Ora sperano nei parchi e nel turismo culturale, per cui cercano di mantenere alto il livello delle manifestazioni musicali e del teatro, delle rassegne d'arte e dell'artigianato, tentano approcci col mondo universitario, potenziano i musei, hanno riesumato la fiera annuale, seguitano a far "scappare" la Madonna in piazza e, rinverdendo l'antico spirito dei borghi e dei sestieri, hanno reinventato - con risultati indubbiamente sorprendenti - la giostra cavalleresca, quella che agli albori del Rinascimento si correva due volte l'anno nella grande piazza del mercato. In attesa di tempi migliori, dunque, la Sulmona di oggi si consola con le suggestioni antiche e i fasti del passato. Ci ha provato e ci riprova non solo con la giostra, ma anche celebrando i suoi figli più illustri, riuscendo di tanto in tanto anche ad assurgere a capitale della regione, ma solo della cultura e solo per un giorno, anzi - direi - per qualche ora appena, perché spente le luci e levate le mense, del celebrato e dei celebranti non importa quasi più niente a nessuno e restano solo grattacapi e conti da pagare. E così, tra speranze e delusioni, vanno verso il nuovo secolo e verso il terzo millennio, confidando nel fato più benigno e nell'aiuto del buon Dio.


da: www.profesnet.it/dabruzzo/


[Modificato da vanni-merlin 11/03/2006 23.13]

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