GIURISDIZIONI DI MERITO - Il valore probatorio del verbale d'assemblea: tocca a chi lo impugna dimostrarne la falsità
Anche se non è redatto dal notaio, la parte che lo ha sottoscritto non può limitarsi a negarlo senza farsi carico dell'onere della prova
Qual è il valore probatorio di un verbale d'assemblea ordinaria di una Srl non redatto da un notaio?
Ad occuparsi di questa singolare questione è stata la Corte d'appello di Potenza con la sentenza depositata il 25 novembre e qui leggibile integralmente tra i documenti allegati. In particolare, i giudici potentini sono stati chiamati a decidere sul caso di un socio di una Srl - poi fallita - condannato in primo grado al pagamento in favore della curatela fallimentare, di una somma risultante dal verbale dell'assemblea, alla quale egli affermava di non aver mai partecipato.
Sul punto la Corte d'appello ha affermato l'opportunità di distinguere due ipotesi.
La prima è quella del verbale redatto dal notaio, in cui "il verbale ha l'efficacia probatoria caratteristica dell'atto pubblico e fa piena prova fino a querela di falso delle dichiarazioni rese dalle parti e degli altri fatti che il notaio attesti essere avvenuti alla sua presenza". La seconda, invece, è quella del verbale redatto per atto privato. Quest'ultimo, dice la Corte, attesta fino a che non ne sia - con piena libertà di prova - dimostrato il contrario e l'inesattezza o la falsità di esso, "sia il contenuto delle deliberazioni assunte nel corso della riunione, sia le dichiarazioni dei soci, sia quanto in esso è fatto risultare ("constare"), compresa quale fosse la composizione dell'assemblea e le eventuali assenze".
Tornando al caso in esame, poiché in occasione dell'assemblea ordinaria - avvenuta in data 29 settembre 1992 - il procedimento di redazione del verbale è stato ritualmente seguito, e nel documento è stato dato atto della partecipazione di tutti i soci. La presenza alla riunione anche dell'appellante "risultante dal quel verbale, sottoscritto da presidente e segretario" non può esser revocata solo perché l'interessato si è limitato a negarla. Quindi, concludono i giudici potentini, non è valida la tesi dell'interessato, e cioè che egli sarebbe stato "...tenuto soltanto a disconoscere la verità di tale fatto...", ossia la propria presenza e che invece "...toccava alla curatela fallimentare provare il contrario". In sostanza, per contrastare la curatela del fallimento l'appellante aveva l'onere, con piena libertà di prova contraria, di dimostrare l'inesattezza o la falsità dell'atto.
(Corte d'appello di Potenza, sezione civile; sentenza depositata il 25 novembre 2003)