Mipruditu, 17/10/2008 12.29:
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Rimango immobile al post del 16/10/2008 8.07, suvvia aiutami a uscire da questo pantano!
come rimani immobile?
se si aggiungono post la discussione va avanti a chiunque
siano rivolti.. se dico qualcosa a IoAnnarella, spero che tu
la legga e la utilizzi per capire meglio cosa intendevo dire..
comunque sia ... uffff
avevo preparato una lunga risposta.
al momento di dare invio me l'ha cancellata e sebbene
avessi fatto il cut non c'è stato modo di reinserirla,
il forum non mi loggava più..
poi sono uscito a vedere amanda palmer.
provo a ricostruirla anche se mi viene un po' di nausea
a cercare di ricordare tutto.
siamo qui a camminare per questo sentiero che ci porterà verso il
nulla, io credo, ma tu dici che l'importante è godere del camminare.
Però ti chiedo: la ruota di un mulino che gira e fa rumore, senza
però macinare nulla, è davvero utile alle nostre disgraziate
esistenze? Non è che quel pane per l'anima sia solo una mera
illusione? Un frivolo pasto per anime che soffrono di miraggi?
Ma non importa, andiamo avanti, sperando di non camminare come
i maghi nell'Inferno della Divina Commedia.
la ruota di un mulino che gira, se ci sono io a osservarla e ne godo,
la ascolto e la guardo, è utile, un po' come siddartha che si siede
sotto l'albero davanti al fiume e ne ascolta e ne guarda lo scorrere.
poi dopo qualche giorno ne esce illuminato..
un po' come ne 'la strada' di kerouac dove si dicono, E' ora di
partire, Ma dove andiamo? Non lo so, l'importante è andare.
Il viaggio come fine e non la meta che spesso si rileva ben al
di sotto delle nostre aspettative..
Come nel film sul Perceval e la ricerca del Santo Graal di Bresson,
'Lancillotto e Ginevra', in cui a un certo punto il protagonista si
dice qualcosa del genere, Questa ricerca lunga e snervante non ci
conduce a nessun risultato ma non è importante raggiungere
l'obbiettivo. è il percorso ad essere importante.
Il cercare solo utilità nelle cose è una cosa che mi rende il mondo
nauseante e a volte insopportabile. Io sono dalla parte di Cortazar,
ti riporto un breve racconto:
Perdita e recupero del capello
Julio Cortàzar
"Il pazzo - diceva Chesterton - è colui che ha perso tutto,
tranne la ragione". Il "perseguimento di fini utili" è un buon
metodo per impazzire ragionando e per consegnarsi prigionieri al
sadismo dei burocrati.
Per combattere il pragmatismo e l'orribile tendenza al conseguimento
di fini utili, mio cugino il più vecchio sostiene che il metodo più
acconcio sia quello di strapparsi un bel capello dal capo, fargli un
nodo in mezzo e lasciarlo cadere dolcemente nel buco del lavandino.
Se questo capello resta impigliato nella retina che di norma dà
buoni risultati nei suddetti buchi, basterà aprire un po' il
rubinetto, e lo si perderà di vista Senza perdersi in lungaggini
s'inizi all'istante l'opera di ricupero del capello. La prima
operazione si riduce a smontare il sifone del lavandino per vedere se
il capello è rimasto agganciato a una delle rugosità del tubo.
Se non lo si trova, si deve mettere a nudo il tratto di tubo che
va dal sifone alla tubatura di scolo principale. È certo che in
questo tratto appariranno molti capelli, e si dovrà fare appello
a tutta la famiglia per riuscire ad esaminarli ad uno ad uno, e
vedere se c'è il nodo. Se non risultasse, si dovrà affrontare
l'interessante problema di rompere le tubature fino al pianterreno,
cosa che comporta uno sforzo ancor più grande perché per ben otto
o dieci anni bisognerebbe lavorare in qualche ministero o azienda
privata allo scopo di racimolare il denaro necessario all'acquisto
dei quattro alloggi sotto quello di mio cugino il più vecchio,
tutto ciò con l'enorme svantaggio, durante gli otto o dieci anni
dei lavori, di non potere evitare la penosa sensazione che il
capello non si trovi più nelle tubature e che solo grazie a un
remoto caso fortuito sia rimasto impigliato in una protuberanza
arrugginita del tubo. Verrà il giorno in cui potremo rompere tutti
i tubi degli alloggi, e per mesi e mesi vivremo fra bacinelle e
altri recipienti pieni di capelli bagnati, e anche fra assistenti
e mendicanti che pagheremo lautamente affinché cerchino, separino,
classifichino e ci sottopongano i capelli atti a raggiungere la
desiderata certezza. Non comparendo il capello, entreremo in una
tappa assai più incerta e complicata, perché il tratto seguente
ci condurrà alle fognature principali della città. Dopo aver
comperato abiti speciali, impareremo ad infilarci nei tombini
a notte inoltrata, armati di una specie di torcia potente e
d'una maschera d'ossigeno, ed esploreremo le gallerie secondarie
e quelle principali, aiutati se sarà possibile da uomini della
mala con i quali saremo entrati in contatto e ai quali dovremo
dare gran parte del denaro guadagnato di giorno nel ministero
o nell'azienda privata. Molto spesso avremo l'impressione di
essere arrivati alla fine, perché troveremo (o ci porteranno)
capelli simili a quello che cerchiamo; ma siccome non si può
assolutamente sapere se un capello ha un nodo in mezzo senza
l'intervento della mano umana, finiremo quasi sempre col giungere
alla dimostrazione che il nodo in questione è un semplice
ingrossamento del calibro del capello (sebbene non si abbia
notizia di un caso simile) o un deposito di qualche silicato
od ossido qualsiasi prodotto dalla lunga permanenza a contatto
con una superficie umida. È probabile dunque che c'inoltreremo
nei diversi rami delle tubature secondarie e principali, fino
ad arrivare in quel luogo ove nessuno si deciderà a penetrare:
la cloaca massima che va a sfociare nel fiume, confluenza
torrentizia dei detriti nella quale nessuna quantità di denaro,
nessuna imbarcazione, nessuna specie di corruzione ci aiuterà
a continuare le ricerche. Ma prima, magari molto prima,
per esempio a pochi centimetri dal buco del lavandino,
all'altezza dell'alloggio del secondo piano, o nella prima
tubatura sotterranea, ci può capitare di rinvenire il capello.
È sufficiente pensare alla gioia che ci procurerebbe, allo
sbigottito calcolo degli sforzi evitati grazie a un caso
fortuito, per giustificare, per scegliere, per esigere sul
piano pratico un esercizio che ogni maestro coscienzioso
dovrebbe consigliare ai propri alunni fin dalla più tenera
infanzia, invece di rompergli l'anima con la regola del
tre composto o le tristezze di Caporetto.
* Tratto dal libro di Julio Cortàzar, Storie di cronopios e fama,
pubblicato nel 1971 con una graffiante nota conclusiva di Italo
Calvino. Si ringrazia l'editore Einaudi per averne consentito
la riproduzione.
Rimango della mia opinione, gli artisti non esistono, e se li ho
tirati in ballo è solo per vederli ballare, magari sparandogli tra
i piedi come farebbe il buon Joe Pesci in Quei bravi ragazzi.
gran film The Goodfellas, ma intendevo l'arte che hai tirato
in ballo è già nel titolo.
Nessun artista fa arte per il bello, nessuno dipinge per tenersi
arte in casa, ma per vendere, vendere e trarre profitto.
Basta che l'artista faccia vedere a una sola persona la sua
opera d'arte a qualcuno che a quel qualcuno lui si offre e,
in un certo senso, si mercanteggia.
non sono daccordo, l'artista si esprime, proprio per il bello o per
quell'irresistibile necessità di esprimere i suoi sentimenti, di
renderli fisici ed esternarli, e poi se riesce a ricavarne
qualcosa ancora meglio. Chiaro che sul suo lavoro particolare,
del tempo che non ha da dedicare ad altre cose non sputi, se
possibile, sulla possibilità di ricavarne qualcosa.
Per quanto riguarda la preparazione tecnica, è indubbio che essa
debba esserci per la buona riuscita del prodotto, ma solo per chi
vuole essere illuso e ingannato a regola d'arte, solo per chi vuole
essere appunto pervaso e raggiungere chissà quali campi elisi. A me
non interessa essere menato per il naso e dire "Oooooh!" di fronte a
Caravaggio, a me interessa solo la scintilla, l'unica cosa che mi
permette di focalizzare la vita che vivo. Le varie ombre, luci,
angolazioni, prospettive e quanto ancora c'è di buono per la buona
riuscita del buon prodotto hanno per me il valore delle confezioni
di carta delle uova di Pasqua.
ecco vedi? tu osservi il discorso dalla parte opposta rispetto alla
mia, tu dici l'opera dev'essere espressione della scintilla e la
tecnica non conta niente, mi sembra si rifaccia al concetto espresso
dai primi cccp con i quali ero daccordo anni fa. poi mi sono
evoluto, 'fanculo la tecnica, l'importante è l'anima di chi chi
suona'. mi faccio anch'io mezzore intere a vedere, ascoltare, pezzi
low fi,
ma mi piace anche apprezzare, che so, giusto oggi, l'ultimo album
degli Oasis malgrado in passato abbiano fatto anche loro schifezze
commerciali, o lo stupendo Third dei Portishead.
l'esclusiva espresisone della scintilla, forse dal punto di vista del
bisogno dell'autore di esprimersi per sé stesso, di vomitare le sue
pulsioni interiori, può andare bene, ma per me si parla di arte
quando la forma, lo ribadiva mi pare il ferretti qualche anno fa,
si
accompagna alla sostanza, la forma da sola è come dici giustamente
tu solo carta per uova di pasqua, la sostanza da sola rimane nel
cervello e nell'ispirazione dell'autore del pensiero, del soggetto.
quando forma e sostanza si accompagnano abbiamo l'opera d'arte,
nel quale le pulsioni di rendere esterno a sé i propri sentimenti
trovano la forma più adatta ad essere compresa ed apprezzata da
ALTRI, di chi osserva, ascolta, legge, l'opera.
Van Gogh, pur essendo tendenzialmente solitario, sentiva la necessità
di confrontarsi con i suoi colleghi sulle modalità di espressione
artistica. poi magari si tagliava una recchia.
trovo comunque nel secolo dietro la dialettica tra due linee di
pensiero che appunto essendo dialettica, si influenzano a vicenda.
il pensare che le cose sono o solo bianche o solo nere,
lo trovo un po' troppo riduttivo e semplicistico e , scusa, un po'
retrogrado e integralista.
ti riporto quello che ho trovato in linea con ciò che intendo,
se lo ritrovo:
da
Res Aerea.
Simbolo, gioco e dialettica degli opposti nell’arte di Carla Viparelli.
http://www.beniculturali.it/pdf/SaggioCuozzo.pdf
[Jean] Clair, contrapponendosi alla concezione estetica marxiana,
che finisce col negare la possibilità di un’esistenza autonoma
dell’arte in una società, come quella moderna, giunta ad uno stadio
di «sviluppo sociale che escluda ogni rapporto mitologico con la
natura, ogni riferimento mitologizzante ad essa»,
osserva: «Eppure l’arte non è una forma dell’ideologia. Eppure i
miti, le figure, le rappresentazioni […] possono ritrovare […]
quella stessa vita che li animava alla loro origine.
L’efficacia dell’arte risiede nella permanenza di quel contenuto
immutabile che, da una generazione all’altra, scopriamo con
emozione, ed al quale restituiamo senso e vita – e non nella
nostalgia di una perfezione formale, dell’“infanzia”,
che si sarebbe persa».
Lontano dalle secche di un razionalismo materialistico
che in arte è sempre risultato angusto, in Viparelli,
come ha ben colto Riccardo Notte, il recupero del «sacro alfabeto
delle forme» viene a connettersi strettamente con quello dell’antico
“mestiere” della pittura, nel tentativo di «riconciliare l’arte con
la sua sintassi, la sua semantica e la sua pragmatica».
Per mezzo di una sperimentazione intensa di tale “mestiere”,
in Carla Viparelli i concetti della mente prendono forma attraverso
l’esperienza empirica, tattile della materia, ed essi sono
inscindibili da tale esperienza, la quale traccia un
percorso nutrito di continue oscillazioni dialettiche
fra immanenza e trascendenza; un percorso che arriva in alto
a partire dal basso, o meglio dall’immersione in un “dentro”
radicale. Questa “sapienza dell’unità”, della totalità,
in cui le profondità del pensiero e quelle della materia
vengono a toccarsi e che nell’artista è in pari misura
intuitiva e razionale, può condurre a ricucire, attraverso
il processo creativo, le lacerazioni fra natura e cultura
che hanno caratterizzato il pensiero occidentale, a partire
da quella espressa nel noto dualismo cartesiano fra res cogitans
e res extensa, fino ad arrivare, restringendo il campo
alla teoria dell’arte, a
quella che tra fine Ottocento e inizio
Novecento ha visto contrapporsi al Kunstkönnen teorizzato da
Semper - in base al quale l’opera d’arte risulta dalla sintesi
fra scopo, materiale e tecnica (il che presuppone nell’artista
un bagaglio di conoscenze tecniche) - il Kunstwollen di Riegl,
pura e incondizionata “volontà d’arte”, indipendente
da qualsivoglia determinazione.
Non pretendo che tu sia d'accordo con me, spero mi capirai comunque.
Per quanto riguarda quadri e foto, il caso c'entra sempre, in ogni
caso (sic!), niente dipende dal volere dell'artista, la sua
preparazione tecnica può essere valida quanto vuoi, ma se il caso
non dispone a suo favore, se l'ispirazione non trionfa nel lavorare,
tutto è niente, vanità di vanità, medaglie al vento che il tempo si
riprenderà. Non a caso i più grandi registi italiani se ne fregavano
delle sceneggiature (Fellini, Ferreri), perché sapevano che la
preparazione tecnica applicata alla carta perde spesso di validità
al riscontro con l'attuazione di ciò nella realtà.
sono d'accordo sul fatto che non esclusivamente il caso, ma parliamo
pure di ispirazione che trovo molto differente dal caso, sia il
punto di partenza per ogni opera d'arte ma è poi l'artista, sulla
base delle sue esperienze passate e della sperimentazione, riesce a
dargli la forma che trova più consona all'espressione di questa
intuizione. Ho visto nottate di takes della stessa ripresa da parte
Di Fellini che modificava la sceneggiatura, che spesso aveva fatto
lui stesso, almeno gli story board grafici, perché nella ripresa
reale non rendevano merito a ciò che per lui doveva essere
l'espressione di quell'idea. non una take immediata e istintiva ma
giornate e giornate di prove per trovare la forma giusta a rendere
reale l'ispirazione. se non è questo il conciliare la sostanza
con la forma...
Vale anche per i pittori e i fotografi, e per gli scrittori, senza
l'anima non sono nulla, se non si trovano in una buona predisposione
di spirito non sono niente, se la vita gli ha tolto il talento
valgono quanto le diecimila lire;
sì sì. la tecnica senza il talento non è arte.
senza l'ispirazione non c'è arte.
ma nemmeno senza la tecnica che permette di esprimerla e lo stile personale che non è un caso ma il risultato, oltreché della naturale
predisposizione, degli studi delle esperienze e delle
sperimentazioni.
per questo tutto il ciarpame tecnico lo tolgo da un film di
Malick e ne riconosco comunque la validità creativa, solo
che della fotografia pulita e ben studiata che vi è dietro,
ad esempio, non so che farmene, anche se è un segno che
contraddistingue il regista preso in questione;
la pulizia in sé stessa, in un film in genere mi risulta
zuccherosa e difficile da digerire..
me ne fotto della sua bravura, m'interessa il nocciolo,
l'nfinitamente piccolo. La zavorra la si butta per poter
volare più in alto in mongolfiera. Che m'importa se sai
usare egregiamente la camera a mano se ciò che mi racconti
manca di vita? E che m'importa se sai usare egregiamente
la camera a mano se ciò che mi racconti è pregna di vita?
mi sa che tu dici se c'è tecnica non c'è succo.
io dico non c'è opera se al succo non dai una forma adeguata.
non c'è arte se al succo non aggiungi la tecnica.
ariufffffffff
più o meno era quello che faticosamente ero riuscito a rispondere.
adesso ci vorrebbe qualcun* che ha studiato realmente storia
dell'arte, e il suo significato, e magari l'abbia messa in pratica, per dirci che entrambe le opinioni sono stronzate e che magari ci illumini...
Un saluto sonnolento
___________________________________
« Il problema dell'umanità è che i folli e i fanatici sono estremamente sicuri di loro stessi,
mentre le persone più sagge sono pieni di dubbi »
« The whole problem with the world is that fools and fanatics are always so certain of themselves,
but wiser people so full of doubts »
(Bertrand Russell)